(Mi sembra corretto fornirvi fin da subito delle serie motivazioni per non iniziare la lettura di questo racconto: è molto lungo, e in quasi ogni sua parte riesce a essere pretenzioso, puerile, lagnoso, sgangherato e superficiale. Questo perchè è stato scritto a mia immagine e somiglianza (a parte la lunghezza). Qua e là qualcosa di buono potrebbe esserci, ma vale la pena sopportare tutto il resto? Non direi. Ma allora perchè pubblicarlo, vi starete chiedendo. Perchè devo farlo, punto. Devo farlo e pazienza se scapperete tutti, nessun problema, davvero: sentitevi liberi di ignorarlo. In caso contrario… beh, potrò dire di avervi avvertito. Ancora una cosa: ho scelto di non pubblicarlo in maniera continuativa, e questo vi complicherà le cose perchè perderete il filo e non ricorderete dove si era arrivati la puntata precedente… OK, ho detto abbastanza, ora si va a cominciare…)
il bene che hai dovrai renderlo, giacchè non ti appartiene;
del male che hai dovrai rispondere, giacchè sei tu ad averlo portato nel mondo
(Arnoldo Flavio Oreste Risma)
PLINC, PLINC, PLINC… PLINC… PLINC… PLINC…… PLINC…… plinc……… PLINC……… plinc
E’ incredibile come le cose più insignificanti possano rovinare i rari momenti di serenità- pensò Davide mentre girava lo sguardo verso l’angolo della stanza da dove l’ennesima perfida goccia si stava precipitando dalla doccetta fino a spappolarsi sulle piastrelle ancora bagnate. Diede inizio al suo solito giochetto: forzandosi a credere che la mente umana possieda poteri speciali fissò con rabbia la goccia che stava ancora aggrappata lassù, concentrandosi per riuscire a impedirne la caduta. Ma perchè non era trasparente? Era di certo un effetto ottico: sbattè le palpebre
plinc
e osservò attentamente il successivo rigonfiamento d’acqua. Non sembrava affatto acqua: quello era sangue, era pronto a giurarlo. Si avvicinò
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e vide la goccia color rubino arrivare sulla superficie umida, schiantandosi e sparpagliandosi in decine di minuscoli schizzi rossi. Sbattè di nuovo le palpebre ed ecco che il fondo della doccia gli apparve nascosto da due dita di sangue, che subito furono attratte dallo scarico vorticando e gorgogliando, provocandogli un senso di vertigine; si mise a sedere sul tappeto lì accanto e guardando le tracce che avevano resistito al risucchio pensò: questa non è superstizione.
“Superstizione” era il titolo dell’ultimo racconto di Ilaria, quello che non aveva ancora voluto fargli leggere. Tutto era partito da uno strano libretto che lei aveva trovato nella biblioteca dell’università: era in terra davanti a uno scaffale come se fosse caduto da un ripiano ma quando lo aveva chiesto in prestito aveva scoperto che non era presente nell’elenco dei titoli; non ne aveva trovato traccia nemmeno nell’immenso contenitore di internet e questo fatto ai suoi occhi l’aveva immediatamente trasformato in un prezioso tesoro, mentre a lui sembrava più probabile che l’oblio fosse meritato. Dimostrava non meno di trent’anni e la spessa e anonima copertina di cartone di un avvilente marrone, scalfita qua e là e rovinata dal segno di una piegatura, aveva al centro impresso in nero il titolo “Frammenti”; in alto il nome dell’autore era quasi scomparso ma si poteva leggere ancora: Arnoldo Risma. Le pagine ingiallite contenevano un caotico miscuglio di racconti, frasi sospese nel vuoto, aforismi, giudizi e autoanalisi ed entrambi si erano convinti che quel Risma si fosse pagato da sè la pubblicazione, come qualcuno si riduce a fare pur di vedere stampati i propri scritti.
Ilaria era davvero entusiasta di quel libriccino, Davide si era dovuto abituare a vederglielo sempre in mano, la mattina mentre facevano colazione e la sera mentre lei mangiava qualcosa dopo essere rientrata dalle prove col suo gruppo, perfino le pause che si concedeva in mezzo ai pomeriggi di studio le passava sfogliandolo; mentre scriveva al computer lo teneva accanto come un portafortuna e se lo portava in borsetta dovunque andasse. Leggendolo poteva capitare che sorridesse o le sfuggisse una risata improvvisa, a volte sembrava che stesse per piangere; ogni tanto gli rivelava qualcosa ma lui si sforzava di rimanere impassibile perchè voleva che si ravvedesse da quell’interesse ossessivo. Solo che lei non sembrava aver alcun bisogno del suo sostegno ed era come rapita da quell’immersione “nell’anima di un uomo, come non potrei mai sognarmi di fare nella realtà”, come lei stessa gli aveva detto, fingendo di non sapere che lui era sempre rimasto con l’anima a nudo di fronte a lei.
Una sera, rientrato dall’officina, l’aveva trovata seduta in cucina, in una mano teneva il solito libro e nell’altra una mela già iniziata; le sfuggì un “noo!” di delusione, mezzo soffocato dal boccone che stava masticando. Lui la guardò interrogandola con gli occhi, lei deglutì e gli spiegò: -non pensavo che anche Arnoldo ci cascasse… -ne parlava come se fosse un caro amico- nella superstizione, intendo. Invece afferma cose assurde come fossero verità, e tramite la sua testimonianza diretta truffa in maniera schifosa i malcapitati lettori- lui provò a difendere quel tale: -non penso che credesse di poter avere sul serio dei lettori…-ma lei era ferma nella sua sentenza di condanna: -basta che ci sia una sola persona suggestionabile e il danno è già compiuto, siamo sempre responsabili di quello che scriviamo- Questo era il passo incriminato:
voglio ora avvertire chi di voi si accingesse a dedicarsi al delicato compito della scrittura di un immenso pericolo che lo minaccia: siccome rientra nella normalità per uno scrittore inserire nelle sue opere elementi attinti dalla realtà, poichè riesce più naturale e più credibile descrivere e discorrere di ciò che si conosce, facilmente egli darà ai suoi protagonisti caratteristiche simili a quelle di persone veramente esistenti. Però riportare veri e propri ritratti di queste risulta pericoloso quando le si imprigioni in una storia che le conduca a disgrazie; pongo a sostegno di ciò la mia conoscenza diretta di numerosi casi particolari verificatisi nella nostra città e a niente vale cambiare i nomi se lo scrittore ha prelevato i personaggi dalla realtà senza apporvi alcuna altra modifica. Potrà suscitare ilarità questo mio avvertimento fra quelli a cui non è mai arrivata notizia di simili accadimenti ma io garantisco dell’esistenza di questo spaventoso potere della scrittura (“ne ferisce più la penna che la spada” è un ammonimento che si basa proprio su questo, sappiatelo). Dobbiamo accettare che la realtà, seguendo la traccia fornita dalla fantasia, arrivi a colpire le persone reali nei modi escogitati dallo scrittore, anche se non sempre ricalcando esattamente la trama. Comunque la tragedia è inesorabile nel suo compiersi e l’unico modo per fermarla, dato che tende a svilupparsi con una certa lentezza, è distruggere il racconto; non solo l’originale ma anche tutte le eventuali copie fatte stampare, esso deve sparire per sempre dal mondo
-ti rendi conto di quante cazzate dice in poche righe? -scuoteva la testa, delusa; poi gli occhi le si illuminarono: -scriverò un racconto apposta per demolire queste cretinate e ci metto noi due, e coi nostri veri nomi- sorrideva ma a lui un lungo brivido percorse la schiena. Non che potesse dar credito a certe sciocchezze, assieme a lei era solito ridere di tutte le assurde credenze diffuse nel mondo, però… qualche dubbio gli rimaneva e non gli piaceva l’idea di sfidare il destino così apertamente.
Si tirò in piedi. Tutto quello non poteva che essere uno scherzo della sua mente, dovuto alla stanchezza di una settimana intensa. Sì, doveva essere così, il suo cervello si era fatto suggestionare da…da cosa? Ilaria non gli aveva rivelato nessun particolare dell’idea che aveva sviluppato nel racconto; sicuramente qualcosa di macabro, le sue storie finivano quasi sempre col descrivere sangue e cadaveri, questa poi doveva essere tragica per poter sfidare il Risma. Abitualmente quando aveva buttato giù la stesura definitiva gli faceva leggere quel che ne era uscito ma invece per quel racconto aveva rimandato il tutto annunciandogli la probabilità che riuscisse a farselo pubblicare, perciò solo all’uscita gli avrebbe concesso di sapere che cosa aveva immaginato gli succedesse. Gli era sempre possibile violare il computer di Ilaria ma non l’avrebbe mai fatto, e lei lo sapeva. Aprì il rubinetto del lavandino: acqua limpida. Bene. Con le mani a coppa ne raccolse un po’ e la usò per lavare via il sangue dalla doccia, gli ci vollero quattro viaggi. Mentre si stava asciugando sentì la voce di Ilaria che lo canzonava: -guarda che se ci metti troppo tempo ti viene la muffa…-Quanto a lungo era rimasto perso in sè ripensando a quel libro? Impossibile stabilirlo. Si vestì in fretta per non insospettirla e naturalmente non le disse niente di quelle allucinazioni.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…