Non scusatemi: non ho alcuna giustificazione da offrirvi. Sono un orso alieno e perciò la mia naturale orsitudine si è risistemata alla postazione di comando (dopotutto l’impronta sul sedile è quella del suo culo), così mi sono rintanato nel mio riparo appena oltre la realtà di cui vi dicevo. Ed è là che sto già ritornando.
A chi non si fosse accorto della mia assenza voglio ricordare che ignorare le cose davvero importanti potrebbe essere pericoloso: le cose davvero importanti potrebbero non ignorare voi eheheheheheh.
Ma vonde monadis. Vi lascio una cosetta, sperando che ciò non aggravi ulteriormente la mia posizione. Statemi bene eh.
Sembra ieri
“Ho passato tre anni affacciato su quelle cento pagine. Sono tanti tre anni ma pensavo di scriverne molte di più: era il mio primo romanzo e credevo che dentro avrei dovuto metterci tutto -che ingenuo! Ben presto mi accorsi che avevo una conoscenza vaga persino di ciò che avrei dovuto conoscere alla perfezione, e passai due intere stagioni a deprimermi per quella scoperta. Poi ripresi in mano i fogli e mi abbandonai alle piacevolezze della potatura: tagliai tutte le divagazioni dalla storia principale, tutti i personaggi che conducevano verso vicoli ciechi. Ancora non bastava: nella mia furia contro il superfluo gettai nell’oblio una montagna di avverbi e aggettivi. Dopo aver messo il punto finale seguii un consiglio che avevo trovato nonsodove: lasciai fermentare il romanzo nel buio di un cassetto per una stagione. Mi costò molte notte insonni e il mio umore durante il giorno peggiorò i miei rapporti con gli altri – come ben sapete. Quando infine rilessi ciò che avevo scritto ne fui sorpreso: c’erano frasi qua e là -e perfino interi capitoli- che non mi ricordavo di aver scritto, ed erano le parti migliori. Tutto il resto era sgangherato: c’erano parti superficiali e parti pretenziose, capitoli soporiferi e salti logici. Pensare a quanto lavoro sarebbe stato necessario per salvare il romanzo era sconfortante. Ciò che però più mi sorprese fu la scoperta che da romanzo-mondo qual era nelle mie intenzioni iniziali si fosse trasformato in una sorta di dichiarazione mascherata di ciò che credevo di provare nei confronti di Ilaria.
Non vi ho mai parlato molto di Ilaria, lo sapete come sono fatto. Pensavo continuamente a lei e nel romanzo cercai di dare forma ai miei sentimenti, e di ipotizzare i suoi in una maniera pessimistica che lasciasse però immaginare un briciolo di speranza. Sapete cosa successe? Avevo passato tre anni a descrivere i suoi occhi e ciò che ci vedevo quando avevo la fortuna di tuffarvi i miei, ma in tutto quel tempo non li avevo mai ammirati dal vivo: mi ero rintanato in un mondo immaginario mentre la realtà continuava per la sua strada senza di me. Allora guardai dentro di me con attenzione e onestà, e quello che vidi lo conoscevo da molto tempo, solo che non ero più in grado di ignorarlo. Non sono come gli altri. Già allora presi la mia decisione e aspettai un segnale che mi indicasse il quando.
Il quando è adesso. Ieri mi è arrivato un messaggio di Ilaria: vorrebbe rivedermi. Capite? Io, che nella mia testa mi raccontavo di amarla, mi raccontavo di essere in grado di amare, io l’ho pian piano allontanata dalla mia realtà, invece lei mi chiede di vederci, lei che sa cosa provo per lei (cosa io le ho detto di provare) e mi ha offerto la sua amicizia.
Mi dispiace andarmene così ma io non faccio parte del mondo, sono sempre stato un alieno ovunque fossi. Troverò un posto lontano da qui e deciderò se viverci o morirci. Il punto è che anche qui potrei morirci, ma sarebbe per voi un dolore forte e improvviso come una coltellata. Immaginate invece un addio lento e malinconico, una specie di sfumatura sull’orizzonte, e tutto andrà meglio.
Vi voglio bene
A.”
Arnoldo Risma lesse solo la prima riga della lettera perché il resto lo conosceva bene: era stato lui a scriverla e a lasciarla sul tavolo della cucina prima di partire. Non pensava che l’avrebbe rivista, che il passato l’avrebbe raggiunto persino in quella grotta. Chissà se sono ancora vivi. Sempre stringendo la lettera ingiallita fra le mani rialzò la testa e osservò la donna in piedi davanti a lui. Non era in grado di negare la verità, forse nemmeno era in grado di parlare senza mettersi a piangere come un bambino. Dopo tutti quegli anni Ilaria era ancora uno splendore. Arnoldo guardò -finalmente- dentro a quell’azzurro che gli capitava ancora di sognare la notte: i sogni non erano che una minestrina insipida, aveva dimenticato la potenza di quegli occhi. C’era la gioia di vivere, c’era la voglia di esplorare, c’era affetto? sì sembrava proprio che ci fosse, e in più c’era una forza, una consapevolezza del proprio valore che allora non esisteva – o che forse allora non aveva riconosciuto. Un ricordo improvviso che era anche un desiderio impellente -lei addormentata sul petto di lui- occupò il suo cuore e Arnoldo fu di nuovo perduto.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…