-Mi scusi buon uomo-
-Dica pure-
-È questa la strada che porta al 1984, vero?-
-Certo, è sicuramente questa-
-Aah grazie. Sa, con questa nebbia… Secondo lei quanto mancherà?-
-Non lo so, so solo che di questi tempi quando sento Povera patria mi viene da piangere-
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La Costituzione della Repubblica Italiana dovrebbe essere conosciuta da tutti, dovrebbe essere insegnata come si deve nelle scuole. Chiunque dovrebbe poterne discutere in piena libertà e con cognizione di causa, in fondo si tratta della legge fondamentale dello Stato. Invece i costituzionalisti sorridono e vorrebbero essere gli unici a dialogare su di essa. Anche se questa pretesa di dover essere gli unici a interpretare la (ribadisco) legge fondamentale -su cui poggia tutta la costruzione statale da cui dipendono doveri e libertà (la vita!) di tutti- ha un chiaro sapore di classe sacerdotale, ha comunque un suo senso: la Costituzione contiene varie espressioni gonfie di retorica, e la retorica fa rima con vaghezza (vi dico di sì 😀 ); inoltre lascia ampi spazi vuoti, che inevitabilmente devono essere riempiti quando bisogna metterla in pratica. Abbiamo bisogno dei sacerdoti per interpretare quella vaghezza e per offrirci valide deduzioni su quegli spazi- pur se è inevitabile che fra loro le opinioni siano discordanti.
Proprio uno scritto di uno di quei sacerdoti ha reso chiaro ai miei occhi le conseguenze di qualcosa che nella Costituzione non viene detto esplicitamente, qualcosa che mi ha fatto fare un salto sulla sedia e di cui non so quanti si rendano conto:
“Il Governo non è un organo a termine: esso rimane in carica, infatti, sin quando le Camere non gli revochino la fiducia o non decida di dimettersi.”
“Il Governo può dimettersi anche[…]:
in seguito ad elezioni generali, al fine di accertare la permanenza del rapporto fiduciario. Una norma di correttezza costituzionale vuole che il Governo si dimetta anche se le elezioni abbiano confermato la maggioranza al potere; ma, secondo un’altra norma di correttezza, il Presidente della Repubblica respingerà le dimissioni.”
(Diritto costituzionale – Temistocle Martines)
Secondo la più bella del mondo potremmo benissimo avere un Governo permanente. Al tempo mi è venuto un brivido ma mi sono sùbito tranquillizzato, convinto che una situazione del genere sia solo un caso di scuola, impossibile da riscontrare nella realtà. Dopo uno stato di emergenza così prolungato però sono più suggestionabile… Ma andrà tutto bene. Non vi sembra così inquietante? Ora provate a rileggere le citazioni con questa musica in sottofondo…
Dieci (!) anni dopo, stesso mood.
Non si può dire che gli fosse sembrata un’idea sensata, questo no, ma si era da tempo rassegnato a non trovare sensata alcuna delle idee partorite dalla sua mente e questo né prima né durante o tantomeno dopo la loro realizzazione; ma non sempre riusciva a fare a meno di metterle in atto. Così quella volta si era trovato sul bagnasciuga alle cinque e mezza del mattino di un giovedì d’inizio autunno. Si era aspettato di sentirsi bene già solo per il fatto di essere lì mentre gli altri sprecavano il loro tempo dormendo, invece non andò così: la natura anche nel riposo e nella desolazione provoca comunque una certa dolce ammirazione, al contrario quelle cabine abbandonate, quella piantagione di ombrelloni richiusi e quell’assenza che si percepiva fra le case e gli alberghi affacciati sul lungomare gli suscitarono dapprima una strana e infantile paura, e sarebbe finita lì se…
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E insomma la direzione è la Cina. Siamo ancora lontani ma intanto abbiamo compiuto un primo pass(o). Spero che apriate gli occhi prima che sia troppo tardi. Il greenpass potrà sembrarvi poca roba (per quanto mi riguarda è già intollerabile) ma almeno non lasciate che peggiori: se per ottenerlo ci vorrà in aggiunta anche una sola condizione all’apparenza insignificante, e/o se installeranno lettori permanenti nei luoghi pubblici -ecco, sarebbero segnali preoccupanti, e se non vi preoccuperebbero…. beh allora siete senza speranza, pronti a diventare sudditi perfettamente allineati. (Ah, a forza di trasferire sempre più aspetti della vita online fra non molto -ci siamo davvero davvero vicini – basterà un clic per rovinare una persona. Adesso immaginate che qualche genio del male riesca ad abolire il denaro contante -contro l’evasione eh, nel nome del mitico Bene Comune- In quel caso basterà un clic per uccidere letteralmente una persona. È là che stiamo andando. Evviva.)
Io fermo il blog a tempo indeterminato. Esticazzi direte, sempre che non stia parlando da solo. Questa cosa è così deprimente e odiosa che mi fa passare ogni entusiasmo (che già era poco): mi sento come se fosse già inverno – e l’inverno da sempre prova a uccidermi, ed è capitato che ci sia andato davvero vicino. Ecco, nell’eventualità che abbiano la folle idea di riprendere coi lockdown e coi coprifuoco, allora forse potrei pubblicare delle foto autoincriminanti, ché le stronzate non le reggo proprio più.
Tornerò? Chissà. Nel mentre il blog diventerà un contatore dei magnifici giorni della magnifica età del benevolo greenpass. Statemi bene
Mandi
Ivano Franceschinis
Forse mi troverai nonostante tutto,
forse un giorno risvegliandoti dai tuoi pensieri ti guarderai attorno e non riconoscerai il terreno su cui stai camminando, alzerai la testa -un accenno di sorriso ti farà ancora più graziosa- e inspiegabilmente mi noterai
forse mi troverai nonostante tutto,
nonostante il mio accanito mimetismo, nonostante l’ombra grigia di cui mi ricopro lasci scoperti soltanto i miei occhi mezzo andati a male
ma nel frattempo resto immobile a fissare lembi di passato su cui provo inutilmente a scrivere trame alternative
nonostante i miei respiri trattenuti, i miei colori rinnegati, i miei gesti insapori
ma forse invece non mi troverai,
forse sentirò ancora il gelo penetrante delle possibilità sfiorate, dalle possibilità rifiutate, forse riuscirò ancora a nascondermi alle indiscrete luci accecanti
forse mi troverai nonostante tutto,
e, se davvero sarai tu, allora mi colpirai così forte da stendermi, così in profondità da ottenere risposta da muscoli che non immaginavo di possedere
forse mi troverai nonostante tutto,
e allora mi alzerò e ti seguirò, e ti accompagnerò lungo tutte le strade che vorrai percorrere, smetterò di corteggiare la morte e mi dedicherò soltanto a te, e forse persino al me racchiuso nei tuoi occhi
ti difenderò e ti lascerò difendermi, e non ba ba bal be be bet te te terò più di fronte all’ignoto, di fronte alla vastità del nulla che mi attornia e che mi abita
forse mi troverai nonostante tutto,
ma devi fare in fretta, ché l’immobilità non inganna il tempo, e in mancanza di cibo mi sto mangiando il cuore un pezzetto alla volta
ma forse invece nemmeno tu esisti, forse sei solo il sogno di un’esca appesa a un amo, e chissà chi è il pe pe pe sca sca scato to tore.
[toccata e fuga, poi si vedrà]
La realtà è un falò acceso nel mezzo della notte, e i suoi confini sono incerti e instabili. Tutt’intorno il freddo e il buio affliggono un territorio di forma e dimensione impossibili da stabilire con precisione, si può solo intuire che è più vasto –molto più vasto- rispetto a quello svelato dal falò. Potrei starmene sul confine, e in effetti a volte lo faccio, ma ci si ritrova con la faccia sudata e la schiena ghiacciata -o viceversa. Potrei starmene da qualche parte là nel buio, che ha un certo fascino -no? No? Beh, per me sì: là c’è così tanto da esplorare che si potrebbe smarrire la strada del ritorno, e tutto è così imprevedibile… Però è un posto pericoloso: c’è sempre il rischio di calpestare qualcosa di disgustoso, o di essere attaccati da spaventose bestie -o spaventose cose. Così ho deciso di costruire il mio riparo appena appena oltre la luce: un passettino e sono dentro, un passettino e sono di nuovo fuori. Posso osservare come la luce ballerina del fuoco gioca con la forma delle cose senza che qualcuno possa osservare per bene le mie deformazioni.
Per costruirsi un riparo oltre la realtà ci vuole un pizzico di talento ma non è poi così complicato. Per prima cosa, naturalmente, ho tolto tutte le tegole del tetto, gettandole in un mucchio disordinato, e pazienza se qualcuna si è rotta. Poi è stata la volta degli infissi: smontati uno dopo l’altro e finiti in un altro mucchio (sì, qualche vetro si è rotto). Infine la costruzione è proseguita tramite martello e scalpello -almeno all’inizio, procedeva talmente a rilento che mi sono dovuto affidare a strumenti più efficaci. Ci è voluto un po’ di tempo ma alla fine sono giunto vicino alla conclusione: restavano solo le fondamenta. Ma lì mi sono bloccato.
Sono ancora allo stesso punto, con un riparo a cui manca la parte forse più importante. La mia potrebbe essere una paura superstiziosa delle cose complete, terminate, che perciò non hanno più bisogno di me. E che so per certo si rivelerebbero inutili, insensate. O forse, più banalmente, la mia è la paura dell’irreparabile: una volta distrutte le fondamenta la strada del ritorno sarebbe sbarrata in maniera definitiva. C’è sempre tempo per farlo, mi dico. Chissà se è davvero così.
Mentre qui da noi le campane della torre battono le otto e le strade si intasano delle nostre ansie, di noi che ci affrettiamo con lo sguardo puntato verso la nostra meta, ciechi e precisi come proiettili, coi nostri obiettivi che si sono gonfiati attorno a noi diventando una protezione ruvida e insensibile che ci risparmia il contatto con quegli altri uomini, abbastanza simili a noi, lo si può ammettere, ma pur sempre diversi, altri da noi, e di sicuro non abbastanza importanti da meritare le nostre attenzioni; e i suoni non si mischiano ma si sommano dando vita a un caos cattivo e cinico e spietato e insofferente, e i suoni diventano gli artigli coi quali ci vuole sventrare, dicendoci ma cosa vuoi? togliti di mezzo! devi proprio restare qui? la tua faccia mi dà sui nervi! posso fare a meno di te, capisci quello che dico? e non possiamo farci niente e ci tocca aspettare che sia lui a decidere di andarsene; insomma, mentre qui da noi le campane della torre battono le otto, lì da loro le campane battono a festa.
Mentre qui da noi le campane della torre battono mezzogiorno e il sole ride di noi mentre gioca a spellarci vivi, e le ombre si fanno schive e pudiche ritraendosi proprio quando le si vorrebbe accoglienti e sgualdrine, insomma mentre qui da noi le campane della torre battono mezzogiorno, lì da loro le campane battono a festa.
Mentre qui da noi le campane della torre battono a lutto e lo spiazzo davanti al tempio si intasa delle nostre inquietudini, di noi che sbattiamo la faccia contro una verità che fingiamo essere altra da noi anche se non se ne va mai da quel posticino vedo-non-ti-vedo a cavalcioni del bordo del nostro campo visivo, e da lì esce mentre siamo distratti da noi stessi e in men che non si dica eccola in agguato appena davanti al nostro muso, di modo che non possiamo proprio evitarla; e il silenzio non è meno spietato del caos, solo che preferisce frasi un po’ più lunghe e ci dice ho l’impressione che non pensi abbastanza al fatto che potresti essere tu il prossimo… direi che hai a cuore più la tua reputazione che la bellezza della tua anima… e per spegnerlo dobbiamo aspettare quando da molti saremo ritornati pochi; insomma, mentre qui da noi le campane della torre battono a lutto, lì da loro le campane battono a festa.
Mentre qui da noi le campane della torre battono la mezzanotte e le luci nelle case sono rare, boe di segnalazione che stanno lì a indicarci residui di vita vissuta, forse, o forse invece imbrattamenti di consapevole autodistruzione, insomma mentre qui da noi le campane della torre battono la mezzanotte, lì da loro le campane battono a festa.
Sempre, sempre, sempre a festa. Loro festeggiano sempre. Possibile? Forse fingono, forse vogliono solo umiliarci e se di questo si tratta allora è probabile che stiano ancora peggio di noi. Ma non possono fingere tutti, non riesco a crederci. Ah, ci ho parlato con qualcuno di loro, càpita che vengano a farci visita e a volte riescono a convincere qualcuno dei nostri a seguirli, a volte invece non ritornano indietro vivi, da noi non tutti tollerano i loro discorsi, né tantomeno la loro sicurezza o i libri nei quali confidano, o (e questo è ciò che irrita di più) i sorrisi e gli sguardi sereni di cui sono portatori. Ci ho parlato e, lo dico sottovoce, hanno le loro ragioni. Anzi, le loro ragioni mi sembrano più robuste delle nostre, e questa è una conclusione a cui sono arrivato da tempo. Ma c’è qualcosa in noi uomini che lavora indipendentemente dalla ragione, a volte addirittura le si rivolta contro: naturalmente sto parlando del cuore, e quello striminzito che mi è toccato in sorte non si è mai convinto del tutto. Sento le loro campane a festa e mi dico fanno bene! però me ne rimango qui.
abbi pietà
di noi vigliacchi a testa bassa
abbi pietà
di noi seppellitori di qualità
abbi pietà
di noi iene solitarie
abbi pietà
di noi stanche meduse
abbi pietà
E insomma c’è questa specie di sfera che mi porto sempre dietro. La guardo e la accarezzo, e nelle sere più buie e silenziose riesco a guardarla ancora meglio, riesco a osservare con maggiore precisione ogni suo gonfiore, ogni suo avvallamento; quello che non vedo lo completo per mezzo dei ricordi, e i ricordi costringono la sfera a seguire le loro volontà – la mia volontà. Tutto questo potrebbe sembrarvi strano, ma quello che sto per dirvi vi sembrerà anche stupido e insano, credo.
Guardo e accarezzo la sfera, dicevo, e quando la sera è particolarmente buia, o quando il tempo è particolarmente immobile, afferro la sfera e la tengo stretta nella mia mano. Percepisco il gelo che emana, sento tutto il suo peso -a volte è così pesante da diventare un’àncora. La mia mano la circonda e la nasconde ma non ho bisogno di guardare per sapere quali sono le zone dove premere più a fondo per poter raggiungere il mio scopo, ormai la conosco quasi a memoria. Premo e sento che la sfera a sua volta preme sulla mia pelle in una moltitudine di punti diversi. Appena dopo che la mia mente l’ha immaginato ecco che i punti si fanno punte, e in pochi attimi arriva il primo accenno di dolore. Quanto dolore ci sarà dipende dalla mia volontà – quasi sempre, càpita che ciò che ho scatenato si fermi un po’ più in là rispetto a dove avrei voluto si fermasse. Le punte lentamente si allungano, si aprono una strada attraverso la pelle e cominciano a scavare nella carne: gocce di sangue vengono spremute fuori, a volte qualche lacrima le accompagna. Una volta raggiunta una certa profondità le punte si ramificano e pian piano arrivano a toccare delle strane zone, nelle quali il dolore richiama, si sovrappone e si somma a dolori passati suoi simili. Dopo un tempo più o meno lungo (impossibile misurarlo con certezza) le punte si ritraggono, sempre lentamente, lasciando come segno del loro passaggio le ferite gocciolanti nella mia mano – quante volte sono state le prime immagini al risveglio, dopo essermi addormentato mentre la sfera eseguiva il suo odioso còmpito…
Faccio questo perché mi piace? No di certo. Lo faccio perché penso di meritarmelo, innanzitutto. E lo faccio perché è la sola cosa che riesco ad opporre all’immobilità della mia incomprensibile esistenza, al nulla che -instancabile- si perpetua e si mangia anni persi e insensati.
E poi… E poi è successo… Non ci si pensa, succede continuamente… agli altri, sempre agli altri, si pensa. La sfera era lì sul tavolo, io nemmeno la guardavo, è stata lei ad avvicinarsi alla mia mano e a rotolarvici dentro. Le ho chiuso la mano attorno, senza pensarci, è un gesto che ho compiuto così tante volte in passato che ha finito per aggiungersi ai miei istinti. Ma non ho premuto. Guardavo la mano e all’improvviso la sfera me l’ha trapassata con tutti quegli spuntoni… Non riuscivo più ad aprirla, sentivo scricchiolii e lamenti delle ossa, vedevo le estremità degli spuntoni sporche del mio sangue, qua e là decorate da lembi della mia pelle. E il dolore! Ero abituato a un dolore che arrivava pian piano, invece quello è stato come un’esplosione. E ho pianto, certo, impossibile non farlo, un dolore così te le strappa fuori, le lacrime, arrivi a pensare che non smetterai più di piangere.
La sfera è ancora nella mia mano, sapete? Gli spuntoni si sono ritratti un bel po’ ma non del tutto, a volte riprendono a scavare nella mia carne con dei brevi scatti (ed ecco altre lacrime), altre volte mi permettono di ignorarli… ma non riesco a liberarmi di loro. Non so se mai ci riuscirò ma credo che in ogni caso le ferite che mi hanno aperto non si richiuderanno più.
Quello che mi hai insegnato probabilmente non riuscirò mai a metterlo in pratica, lo sai? Sono ancora qui da solo, a mettere stupidamente in fila parole, mentre le parole sarebbero magari servite prima, anche se non in fila, anche se non del tutto esaurienti. E adesso? Spero (dovrei dire credo ma non sarei sincero fino in fondo) di poterti rivedere in un posto dove il tempo non ci mancherà e tutto sarà non-detto ma chiarissimo. Ciao papà.
Non è forse il sole a dar la vita ad ogni cosa? Non è forse del sole che ci nutriamo per ottenere la forza con la quale compiere quei nostri stentati passi quotidiani? Eppure senza sole si può vivere. A lungo andare però si rischia di rovinare la propria capacità di valutazione: si potrebbe iniziare a pensare di aver sopravvalutato il benessere di quei raggi, della loro luce e del loro tepore; in seguito ci si potrebbe ritrovare a ipotizzarne addirittura la nocività, ormai votati al disprezzo per ciò che non si può raggiungere. Si finisce trasformati in patetici mostricciattoli ripugnanti, spettrali forme bianchicce e completamente cieche.
Non mi manca niente -mi dico- perché non desidero niente. Non mi manca niente perché non ho bisogno di niente. Il buio è accogliente -mi dico- e discreto. Il buio è accogliente e perenne. Inoltre la mia mutazione mostruosa -mi dico- mi impedisce di ritornare alla luce. La mia mutazione mostruosa è una strada a senso unico. Posso sopportare questo velo di tristezza -mi dico- con la forza dell’abitudine. Posso sopportare questo velo di tristezza perché è sempre meglio del dolore.
Penso che non si tratti di sofferenza e dunque mi sembra di vivere. Ma a un tratto ecco che la grotta trema: un rumore di frana e da uno spiraglio lassù in alto un timido raggio di sole si insinua nell’oscurità e giunge davanti ai miei piedi. Guardarlo fa male: mi buca le pupille e il petto. Piango. Non per il dolore presente ma per quello passato, che fino ad ora ho finto di non aver provato; non per il dolore presente ma per quello futuro, che proverò quando ritornando all’esterno capirò che quel che sono diventato non mi permette più di vivere al di fuori di questo fetido antro.
E intanto continuano a rimbalzarmi nella testa quei versi: nessuna luce rischiara la via/non c’è grido che arrivi laggiù/nessuna lacrima muta in speranza/non esiste l’alba in fondo alla notte.
A ben guardare tutto è metafora e alla fine nulla ha significato
(Mela)
Il cavallino senza più cavaliere si muove ancora sotto le luci. Cavalca e cavalca ma non avanza di un centimetro, sa cavalcare soltanto movenze disegnate da altri. L’accompagna una musichetta allegra ma di un’allegria soltanto dipinta, come soltanto dipinti sono i colori sgargianti del suo manto, come loro anche l’allegria si limita a solleticarne la superficie. Tutt’attorno i ritardatari, come cavallini coi paraocchi, passano dritti senza far caso a lui e al suo inutile cavalcare.
Il cavallino senza più cavaliere si ferma. Si ferma anche la musichetta e al cavallino restano soltanto i colori sgargianti che a ben guardare, in confronto allo sfondo di luci e colori tutt’intorno, non sono poi così sgargianti.
Ora non c’è più nessuno e le luci si spengono lasciando al buio il cavallino senza più cavaliere, immobile nell’attesa di un domani dove farsi ancora illusione.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…