Quei versi li ho riconosciuti subito ma non volevo crederci, nessuno ci avrebbe creduto. Avrei potuto resistere alla pura curiosità, ne sono sicuro, ma il verso aveva in sé l’urgenza del grido d’aiuto. Così mi sono guardato in giro: quello era l’ultimo lotto del paese e in tutte le direzioni la casa più vicina distava almeno un chilometro e mezzo; le strade erano deserte. Un piede sul muretto e con un po’ di fatica (non sono mai stato grasso ma non avevo più vent’anni… e nemmeno quaranta) ho scavalcato la recinzione alla destra dei cancelletti.
I versi provenivano dalla parte posteriore della casa. Ho affrettato il passo. Sul lato la casa presentava due finestre e, circa dalla metà in poi, più nulla: forse il retro era una specie di magazzino o qualcosa del genere, ho pensato. Stavo sudando, e non era solo colpa del caldo. La parte posteriore presentava un’apertura (esattamente di fronte a quella sul lato opposto) per potervi entrare con l’auto e parcheggiarla al coperto. Da lì provenivano i versi che non accennavano a smettere, e lì sono entrato e ho visto qualcosa che non era ciò che mi sarei aspettato, almeno non esattamente. Credo di non aver urlato solo perché la sorpresa è stata più forte dell’orrore. Mentre guardavo l’essere ho sentito brividi freddi rincorrersi lungo tutta la schiena al di sotto della maglietta che vi si era incollata per il caldo, e li ho sentiti anche mentre davo un’occhiata in giro. Quando mi sono ripreso avevo le mani a coprirmi la bocca e il naso, appena sotto agli occhi spalancati; ho guardato l’orologio e sono scappato da lì, scavalcando di nuovo la recinzione e rischiando di precipitare sul marciapiede esterno. Mancavano ancora dieci minuti alle nove ma non me ne sono andato: volevo vedere che faccia aveva Giorgia, che faccia aveva una che nascondeva un tale segreto. Speravo che nel frattempo le mie gambe avrebbero ripreso a sorreggermi a dovere, e che sarei riuscito a smettere di tremare: non volevo proprio scoprire come avrebbe reagito se avesse saputo della mia intrusione.
Giorgia è arrivata cinque minuti dopo guidando una di quelle scatoline con le ruote che chiamano citycar. Ha attraversato il cancello di destra e ha compiuto il mio stesso tragitto per andare a parcheggiare l’auto al riparo dal sole. Mi ha urlato “Un attimo e vengo a aprire !” e chissà se mentre lo faceva stava guardando l’essere, se lo stava guardando negli occhi: a me è parso di sentirne di nuovo il grido. La serratura elettrica di entrambi i cancelletti è scattata mentre i cancelli scorrevoli ancora non si erano chiusi del tutto, e ricordo che per un momento sono stato indeciso su quale dei due scegliere. Mi sembra di avere sorriso ma non ne sono sicuro, sono però sicuro di aver scelto quello di destra, nel dubbio sempre la destra.
Giorgia ha aperto entrambe le porte e si è assicurata che chiudessi i cancelletti. Mi ha invitato a entrare al fresco ma nemmeno ha accennato a stringermi la mano, e ciò mi ha sollevato: preferivo mantenere le distanze, inoltre le mani mi tremavano ancora un po’ e avrebbero potuto tradirmi. Mi ha fatto strada lungo il corridoio, largo più di due metri, attraverso cui passava il piano di simmetria di tutta la casa. Addossati alle pareti, subito oltre l’ingresso, c’erano due portaombrelli vuoti, l’uno esattamente di fronte all’altro, e due attaccapanni vuoti, anch’essi l’uno esattamente di fronte all’altro, poi una coppia di termosifoni. Le pareti erano bianche e spoglie, a eccezione di due serie di tre quadri, se così vogliamo chiamarli: in realtà erano monocromi, rossi i primi due, verdi i secondi e blu gli ultimi. C’era ovviamente anche una serie di porte: spalancate le prime due, chiuse le seconde e le ultime; sulla parete in fondo c’erano altre due porte chiuse, forse quelle che portavano al retro, o forse quelle dei bagni. Tutto era lustro e pulito, non c’era un granello di polvere né tantomeno una ragnatela, e c’era un odore fruttato di detergente, buono ma artificiale.
Lei non arrivava al metro e sessanta, e indossava un paio di jeans e una maglietta nera, e scarpe da ginnastica bianchissime; ammetto che mentre la seguivo l’occhio mi è caduto sul suo sedere, e ci è rimasto fino a quando lei è entrata nella prima stanza a sinistra: forse un po’ abbondante, ma era comunque un bel vedere. Aveva un buon odore che però, combinato a quello della casa, dava un’impressione di salmastro, anche se ora non saprei dire se fosse davvero così o solo una suggestione. La stanza era un soggiorno, mi sono voltato ed eccola anche dal lato opposto del corridoio, come allo specchio. Mi ha fatto uno strano effetto, era come essere dentro a una visione, a un delirio, e probabilmente era proprio così; oltre alla sensazione di irrealtà c’era qualcos’altro a mettermi a disagio, qualcosa di indefinito che allora non ho ben compreso e su cui ho riflettuto nel corso degli anni. Sarà capitato anche a voi di trovarvi in una sala molto spaziosa e poi accorgervi di essere stati ingannati da una parete a specchio, che sembra raddoppiare la profondità della stanza. Lì invece era l’opposto: la primissima impressione era di essere di fronte a uno specchio, sùbito sbugiardata dal fatto di non vedere il proprio riflesso; poi un’altra sensazione si è intrufolata di nascosto, e mi è sembrato di trovarmi di fronte a un confine fra mondi. È per questo, immagino, che per un po’ il battito del mio cuore ha accelerato: non credete che sareste anche voi emozionati e spaventati scoprendo che il vostro mondo confina con un mondo che ne è la versione allo specchio? E non pensereste anche voi che non sarebbe assurdo dedurne che esistono altri confini dello stesso tipo, anzi infiniti confini a specchio, a separare infiniti mondi speculari, in un insensato spreco di spazio? Ecco a cosa mi sono trovato di fronte: una rivelazione che, invece di offrirmi rassicuranti indizi sul senso di tutto, non ha fatto altro che aumentare i miei dubbi. Ma la sensazione che provavo allora non aveva tutte queste parole, lo ammetto, sono arrivate molto dopo cercando di mettere confini a qualcosa che forse non li possedeva; e il mio disagio si alimentava anche della presenza di Giorgia: vi assicuro che là dentro l’ipotesi che lei, in un raptus, potesse arrivare a uccidermi pur di riportare l’ordine non appariva poi così assurda.
L’arredamento delle due stanze era ridotto al minimo: un tavolino quadrato di legno, proprio di fronte alla porta, con intorno due anonime poltrone grigio scuro; addossato alla parete di fronte un mobiletto su cui era poggiata una televisione con il logo della marca nascosto da una striscia di nastro adesivo, e il perché immagino lo possiate intuire; alla sinistra un tappeto blu di gomma, anch’esso quadrato, fra il tavolino e la finestra, sotto la quale c’era un termosifone. Ed ecco tutto. Niente orologi o calendari, niente librerie né tantomeno libri lasciati in giro, niente soprammobili, niente quadri o (non sia mai!) piante. La sensazione di vuoto era resa meno opprimente dalle dimensioni ridotte della stanza, ma queste non potevano nulla contro la paura (forse irragionevole) suscitata da quel rigoroso ordine scarno. Giorgia mi ha chiesto se volessi qualcosa da bere, e per andarmi a prendere un bicchiere d’acqua è uscita dalla porta che si apriva sulla parete di fronte alla finestra; io ne ho approfittato per ammirare ancora quello che già sapete.
Avevo appoggiato sul tavolino il catalogo delle lavorazioni in ferro e stavo cercando di assegnare un voto al pavimento, una scacchiera di piastrelle bianche e giallognole; avevo appena concluso che non sarebbe stato giusto spingersi oltre un cinque, quando da una cassa che non avevo notato, fra il soffitto e la porta da cui eravamo entrati, ha cominciato a uscire uno spaventoso caos di suoni. In mezzo a loro c’erano anche quei versi, assieme a molti altri, e poi grida, lamenti, stridii e scoppi, qua e là percussioni e violini, scrosci d’acqua e tuoni, brontolii, e un basso che ripeteva la stessa nota ossessivamente, a volte appena percettibile a volte quasi coprendo tutti gli altri suoni. Io non so se quella sia musica sperimentale o chissà cos’altro, so però come mi sono sentito a esserci immerso (immerso, sì, perché non era certo solo un sottofondo, per poterci sentire dovevamo quasi gridare): la sensazione era quella di un pericolo imminente ma indefinito, e a essere minacciata sembrava, più che l’incolumità fisica, quella mentale; forse a poco a poco sarebbe stato fatto crollare qualche ponte dentro al mio cervello, lasciando isolate zone importanti, o forse sarebbe arrivata una rivelazione sconvolgente che li avrebbe fatti crollare tutti in una sola volta, lasciandomi isolato dal mondo e da me stesso. Può darsi che quell’angoscia dipendesse in parte da ciò che avevo visto là dietro, lo ammetto, ma per fortuna non ho più ascoltato qualcosa del genere, perciò non ho abbastanza elementi per giudicare. C’era anche un aspetto positivo: le grida dell’essere stavano cominciando ad assumere nella mia mente un significato che mai mi sarei immaginato, e quel baccano mi ha impedito di concentrarmi su quella questione. Giorgia lo ha giustificato tirando in ballo sciocchezze zen quali energia, armonia e non so cos’altro (le sciocchezze zen mi intorpidiscono la mente, se così si può dire, pertanto riesco a percepirne solo le prime parole; le altre nemmeno arrivano al cervello, che fra l’altro è già impegnato a impedirmi di ridere), ma io sapevo qual era la verità.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…