Z. si sveglia. È disteso su di un divano non molto comodo. Si sente stanco, quasi senza forze. Y. sta camminando avanti e indietro oltre il tavolino della sala: passa davanti al televisore spento, arriva fino alla finestra e dà un veloce sguardo alla notte là fuori, si volta e ripercorre i suoi passi precedenti fino a un mobile ingombro di strani soprammobili, poi si volta di nuovo e ricomincia. È nervoso: tiene le braccia incrociate sul petto e gli occhi, puntati verso il pavimento, hanno pianto di recente.
Z. si alza a sedere con fatica. Y. coglie il movimento con la coda dell’occhio, si ferma davanti alla porta che dà sul corridoio e si volta verso il divano:
-Ah!…- quasi gli sfugge, difficile indovinare come vorrebbe proseguire. Z. sorride e lo toglie dall’imbarazzo:
-Allora il rutto? Visto che roba?-
Y. se ne resta là in piedi a tormentarsi la barba. Non parla, allora lo fa Z.:
-Hai capito chi sono no?-
Y. borbotta qualcosa di incomprensibile.
-Come mi chiamano tutti, anche Michela?-
-No no no- Y. mette letteralmente le mani avanti- non è ve/-
-Ascolta. Secondo te è normale uno che si fa chiamare Zeus? Rispondo io che è meglio: non è normale, no che non lo è. E allora io cosa sono?-
Y. si appoggia a uno stipite della porta, accanto al televisore, e la risposta gli esce dalla bocca come uno sbuffo:
-Nonloso-
-Ma hai visto cosa ho fatto no? Hai visto la tua amichetta che fine ha fatto no? E come te lo spieghi allora?-
-No/-
-Te lo spiego io, te lo spiego. Io sono Zeus, Ze-us. Hai capito sì o no? Sì lo so che qualcosa non t/- All’improvviso si sente un urlo prolungato che si direbbe provenire da un grosso camionista a cui stiano andando a fuoco i piedi, accompagnato da un sottofondo di chitarre elettriche e indiavolati pestaggi alla batteria. Zeus estrae il cellulare dai pantaloni della tuta: -È Michela- dice. Lascia urlare il camionista ancora per qualche secondo, poi risponde:
-Ciao. […] Dopo ti spiego. […] Dopo. […] Non ci metto tanto. […] Dopo te lo dico […] Dài che non è niente di che, do/ […]- Zeus guarda lo schermo del cellulare scurirsi, poi lo appoggia sul vetro del tavolino. Y. resta dov’è ma riesce a chiedere:
-Le dirai tutto?-
-Sei fuori di testa? Mi tocca farle dimenticare questo… questo spazio di tempo ecco. Non vorrei ma mi tocca-
-Ma cosa dici?- Y. si avvicina al tavolino- Cosa cazzo dici? Zeus non esiste!- Zeus si alza e gli dà uno schiaffo:
-Adesso sei convinto che esisto?-
-MA COSA C’ENTRA- urla Y.- ALLORA SE TI DO UNO SCHIAFFO SONO UN DIO?-
-Giusto, vuoi un’altra prova! Lo so che sei immortale, ecco la prova!- Y. si ritrae leggermente come a scansare un attacco:
-L’avrò detto da ubriaco-
-Non farmi ridere, lo sai che ho ragione-
-ZEUS NON SVIENE!- Zeus sbarra gli occhi per un attimo, poi si lascia cadere sul divano. Appoggia i gomiti sulle cosce, e il mento nelle mani aperte; guarda in basso:
-Lo Zeus di una volta non sarebbe svenuto, no. Purtroppo è passato tanto tempo da quei giorni- alza gli occhi verso Y.- Allora non l’avrei mai immaginato di ridurmi così, nessuno di noi l’avrebbe immaginato-
Per un po’ parlano di immortalità, di ciò che dà e di ciò che toglie, delle bugie e di come ci si senta finti a raccontarle continuamente; Zeus racconta dell’ambrosia, del suo sapore incomparabile e della ricetta andata persa quando il mondo era ancora giovane, ma soprattutto della sua nocività, di come abbia inaspettatamente indebolito un po’ alla volta gli dèi fino a renderli di poco superiori agli uomini; racconta del tempo in cui aveva sperato che non bevendone più sarebbe tornato quello di prima, per poi rendersi conto che i danni subìti sono irreversibili. A un certo punto a Y. viene un dubbio:
-Ma… Lei…-
-Ka-nah? Dillo, che tanto non può farti niente-
-Ka-nah è immortale no? Ma allora…-
-Hai ragione, non è morta. È dentro di me, e lì resterà. Ma qualcosa di Lei andrà nel mondo- sorride, arrotola la manica destra della tuta: il bicipite è deturpato da un’ampia macchia scura che sembra un livido- Avrò un altro bambino, non sei contento per me?- il sorriso gli si allarga, sembra che sia addirittura felice. Y. non riesce a condividere questo sentimento:
-Ma sua madre… Ma cosa diventerà tuo figlio?-
-Non ti riguarda. Sarà quel che sarà, ci penserò quando sarà il momento-
-Non sarebbe meglio…- Y. fa un incomprensibile gesto con le mani.
-Cosa?-
-Insomma sì… Non sarebbe meglio… Eh abortire?-
-Non dire stronzate, so quello che faccio. Non voglio sentire più una parola su questo, ok?- Y. alza le braccia in segno di resa. Zeus prosegue:
-C’è una cosa importante che devo dirti, poi mi riporti a casa, ok? Allora, tu hai finto con me, sei stato molto bravo ma hai finto, vero?-
-Vero-
-Anch’io ho finto- Y. spalanca gli occhi:
-Ma perché?-
-Beh sai, da un po’ di tempo gli uomini stanno facendo cose strane, bambini in laboratorio, embrioni cresciuti per conto terzi, bambini derivati da tre patrimoni genetici invece che due…-
-Sono cose immorali, dici?-
-Immorali? Allora non hai capito, sono Zeus io, ma che me ne frega della morale!?-
-Allora non ho capito-
-Se mi lasci finire… Sono cose a cui non avevo pensato, e mi rode, ma ho pensato a questa, senti un po’: un bambino che nasce da un uomo, eh che roba?-
-Sai, c’è un film un po’ stupido ch/-
-Sì sì lo so ma io parlo della realtà. Adesso hai capito?-
-Ho paura di sì…-
-Sarai famoso! E la cosa più bella è che sei immortale, puoi godere della gloria, mica come quei cretini che puntano alla gloria pur sapendo che da morti non se ne fanno niente, no per te ci sarà la fama, e poi la gloria quando sparirai per non far sapere di essere immortale! Senti, ti do un po’ di tempo per pensarci ma non puoi rifiutare, lo sai, se Ka-nah riusciva a tenerti in pugno capisci bene che non hai speranze contro di me… Adesso portami a casa, però lasciami nella piazzetta più avanti che poi faccio la strada a piedi- Y. non reagisce, se ne sta seduto con lo sguardo perso nel vuoto. Zeus fa un salto in bagno, quando torna vede che Y. non si è mosso:
-Dài immagina i titoli dei giornali: “Ysingrinus, il primo uomo a partorire”, non è fantastico? E poi tranquillo, che sarà un parto cesareo!- Zeus ride e dà una pacca su una coscia dell’amico: -Su che la vita è bella!- ride ancóra e si avvia verso l’uscita.
Ysingrinus aspetta un altro po’, strane immagini gli attraversano i pensieri. Deglutisce a fatica.
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(Mi rendo conto che è passato un bel po’ di tempo, e forse qualcuno di voi avrà dimenticato, altri nemmeno c’erano… Ecco a che punto si era arrivati:
Giovedì
Giovedì (parte secondaepoibasta): Y. rincasa
Curiosiamo ancora un po’…)
Suonano alla porta. Z. guarda in basso a destra sullo schermo del portatile e si chiede chi possa essere a quell’ora. Si avvicina alla finestra e sbircia fuori: gli scappa una bestemmia. Spalanca la porta e grida sottovoce (sapete cosa intendo):
-Che cazzo ci fai qui? Lo sai che ore sono?-
Di fronte a lui c’è Y., che non sembra cogliere la gravità della situazione, infatti sorride proprio come è solito fare quando si è appena incamminato sulla via dell’ubriachezza, e non risponde. Z. mette la testa fuori dalla soglia e vede qualcos’altro:
-Ma [bestemmia] sei venuto in macchina? Ooòuh!- prova a scuoterlo- Sei fuori di testa? Mezz’ora e Michela sarà qui, devi andartene sùbito, hai capito sì o no?- prova di nuovo a scuoterlo. Y. si degna di partecipare alla conversazione, sempre con quell’espressione ebete in faccia:
-Vieni a casa mia?- Z. spalanca gli occhi:
-Ma sei cretino? Ti sei fumato qualcosa!? Ma se ti ho detto che Michela sta arrivando! Torna domani no? Ma che cazzo c’hai oggi?
-Allora non vieni?-
-Ti ho detto di noo-ooo!- e lo prende per le spalle per farlo voltare verso la strada. Y. sembra ritornare in sè, la sua espressione diventa seria; si libera dalla presa, afferra le spalle di Z. e gli dà una violenta testata alla radice del naso.
Y. ferma l’auto e si volta verso il suo passeggero: bene, non si è ancóra ripreso. Scende e chiude la portiera, aggira il muso della macchina e apre l’altra portiera. Sgancia la cintura di sicurezza ma, quando sta per raccogliere il corpo, Z. apre gli occhi, ricambia la cortesia della testata e lo getta a terra; poi scende dall’auto e afferra il collo di Y.: stringe con tutta la forza di cui dispone, senza pietà, fino a staccargli la testa dal collo. Sùbito la testa si dissolve, seguìta un attimo dopo dal corpo della cosa che non è Y..
Z. non ha mai visto quella casa (non dal vivo) ma sa dove andare, e sa che dovrà essere veloce. Nel corridoio trova ad attenderlo, fluttuanti a mezz’aria, parecchi oggetti pericolosi della cucina; lo aggrediscono tutti insieme ed è costretto a usare la massima concentrazione per difendersi: gran parte delle forchette e dei coltelli finiscono in terra annodati, gli altri riesce solo a tenerli a bada. Lo specchio nel bagno esplode. Centinaia di frammenti di vetro si aggiungono ai suoi problemi, ma riesce a controllare anche loro, apre la porta della cantina e se la richiude alle spalle. Fa caldo lì dentro. Si guarda il palmo della mano destra e vede una minuscola goccia di sangue: in che razza di condizioni si è ridotto!
Scende gli scalini e vede il vero Y. addossato all’angolo più lontano, tanto atterrito da avere le lacrime agli occhi; sette strane bestie scure gli impediscono la fuga: hanno il corpo di un cane robusto, muscoloso, e da ogni corpo partono sette lunghi colli terminanti in una testa che ha, sì, qualcosa di cagnesco, ma come deformato da una malvagità a stento trattenuta al suo interno, gli occhi brillano e le fauci aperte mettono in mostra una spaventosa dentatura grondante bava. Tutte le teste si voltano verso Z. ringhiando, ma a lui basta il semplice gesto che un francese sottolineerebbe con un voilà per farle esplodere. Y. sbarra gli occhi incredulo, ma Z. non ha tempo per le spiegazioni: deve affrontare sùbito Ka-nah.
Fa un passo e si ferma, si piega sulle ginocchia. Ansima. Dalla sua prigione Ka-nah manda un lamento, che si trasforma in un grido acuto; Y. è costretto a tapparsi le orecchie. Z. prende fiato, si avvicina al cilindro e con un solo pugno sfonda il metallo, poi afferra Ka-nah e la costringe a uscire attraverso quello squarcio. Tutto si risolve in poco più di due secondi. La dea è un’enorme massa informe, un illogico miscuglio di quantità incalcolabili di occhi, di disgustose cavità slabbrate e di impensabili protuberanze. Possiede il biancore di una tenera nuvola, ma dalle protuberanze trasuda una secrezione simile a fanghiglia, e le cavità, quando i riflessi delle deboli lampadine lo permettono, lasciano intravedere all’interno di esse dei movimenti che non si sa se attribuire a strani organi o a esseri indipendenti dalla dea. La temperatura aumenta sensibilmente. Ka-nah grida ancora più forte accordandosi a una nota che non dovrebbe esistere, si fa tanto luminosa da accecare, si appiattisce e si allarga, forse tenta di avvolgere Z. ma lui non le dà il tempo: la accartoccia e la comprime fino a riuscire a tenerla tutta dentro a un pugno, poi apre la bocca e la inghiotte.
Y. è bloccato dallo stupore; il suo sguardo è deturpato da una grande macchia violacea dal contorno ricco di protuberanze, un effetto ottico che, rispetto a un ricordo, ha il vantaggio di non costringerlo a osservare tutti quegli occhi, e tutte quelle iridi il cui colore non è davvero un colore ma il vuoto che assedia certe stelle oltre i bordi dell’universo, stelle che si comportano in modi che nemmeno possiamo concepire. Prova a dire qualcosa ma non riesce a sentire la propria voce, tutta colpa del grido di quella… cosa. Z. sta barcollando, è sudato come se fosse appena uscito da una sauna. Indietreggia e si appoggia alla parete, poi spalanca la bocca e manda il rutto più potente di tutti i tempi, o almeno così lo giudica Y. sentendo la casa tremare (al piano di sopra vanno in frantumi alcuni piatti e bicchieri, e cade un quadro di un autore sconosciuto ai più, dai tratti netti e i colori accesi). Z. non sembra molto lucido, fa un passo incerto in avanti mentre la bocca gli si piega in uno stupido ghigno, non assecondato però dagli occhi, che vagano di qua e di là, per poi rovesciarsi a mostrare il bianco: Z. crolla a terra svenuto.
(e non finisce qua…)
Oltre la siepe
l’Infinito smanioso
d’avere un senso
-Ehi, dove crede di andare?-
-…-
-Non faccia finta di non aver sentito, venga qua!-
-Ma anche oggi !? Senta, sono stanco morto, oggi faceva pure un freddo cane, non si potrebbe lasciar stare per una volta?-
-Non sia ridicolo, venga qua e basta, non ho tempo per le sue scuse.
Davide si avvicinò di malavoglia, con la mano destra trasportava una borsa di plastica con dentro qualcosa dalla forma rettangolare. L’uomo la indicò con il mento:
-È lì dentro?-
-…-
-Non mi basta uno sguardo truce, deve rispondermi.-
-Eccheppalle. Sì, è qui dentro.-
-La tiri fuori dalla borsa.-
Davide estrasse la scatola e subito un colpo di vento gli strappò di mano la borsa, che filò via seguendo quel refolo dispettoso. Non l’avrebbe più rivista.
-Mmmmh!! Bene! Molto bene!- Ora teneva la scatola di scarpe appoggiata contro il ventre, sostenendola da sotto con entrambe le braccia (doveva essere ben pesante): sembrava un Re Magio con la sua offerta per il Salvatore. La scatola mandava una leggera luminescenza.
-Ecco qua. Dov’è Coso?-
-Non è il caso di mancargli di rispetto, non crede? E non mi prenda in giro, sa bene che la aspetta al solito posto. Intanto metta una firma qua, facciamo le cose per bene, non voglio avere storie se succede qualcosa, oggi ho una strana sensazione… Una qui e una qui, come sempre.-
-Ehi, e se non volessi firmare?-
-Ma cos’ha da ridere? Non penserà davvero di essere furbo? Con quella faccia lì?-
Davide appoggiò in terra la scatola e incrociò le braccia sul petto.
-Va bene ho capito, firmo io per lei.- firmò- Ma pensa che imbecille! Ma cosa credeva, che bastasse… Incredibile! E certi cretini hanno anche il coraggio di farsi vedere in giro…- e continuando a borbottare fra sè se ne andò coi documenti in mano, senza mai voltarsi.
Davide raccolse la scatola, fece una decina di passi in avanti ed entrò attraverso una porta socchiusa alla sua destra. La sala era ben illuminata, ma talmente vasta da non riuscire a vederne i limiti, nemmeno in altezza, perciò era come essere nel bel mezzo del nulla: aveva sempre un po’ di paura a staccarsi da quell’unica parete visibile alle sue spalle. Almeno il parquet scricchiolava, dando una rassicurante sensazione di presenza. La sala era ben illuminata (da dove provenisse la luce restava un mistero), ma c’era qualcosa di fronte a Davide, qualcosa di enorme, che non si lasciava illuminare. Era come se il buio si fosse solidificato: era Coso. Che naturalmente non era il suo nome; in realtà non aveva un nome, forse nemmeno esisteva: era il Vuoto. Ma che sciocchezza, certo che esisteva, altrimenti contro chi aveva combattuto ogni giorno per tutto quel tempo? Contro sè stesso? Cazzate. Cazzate che potevano sembrare intelligenti ma restavano comunque cazzate. Il Vuoto esisteva e, ogni volta che ce l’aveva di fronte, a Davide si rizzavano tutti i peli. Era potente, il Vuoto.
-Davide, vecchio mio, cos’hai portato questa sera?-
-Ti avverto, questo è molto forte, anche oggi hai perso.- Davide guardò la scatola, la cui luminosità aumentò.
-Non essere precipitoso. Tiro a indovinare? E’ forse una speranza?-
-No.- La scatola lampeggiò e si scurì leggermente.
-Mi dispiace. E’ forse un desiderio?-
-No.- La scatola si scurì un altro po’.
-Mi dispiace. Ti conosco abbastanza bene, direi, perciò restano poche alternative, praticamente vado a colpo sicuro: è un altro racconto?-
-“Un altro racconto”, sì, ma cosa credi? È un racconto migliore di tutti gli altri!- La scatola riprese luminosità, era anche molto più calda.
-Ah sì? E di cosa parla?-
-Parla di fede-
-Ma non mi dire!-
-Sì, di fede. E di un popolo speciale, un popolo di Santi schierati in difesa del mondo!-
-Addirittura! E poi, e poi?-
-Parla di un uomo beffato dall’Evento che aveva tanto atteso, e di suo figlio che invece ci finisce in mezzo.- Davide guardava fisso in quel Nulla rappreso, la scatola fattasi ormai accecante, e così calda e pesante da riuscire a malapena a reggerla.
-Ma pensa! E poi, e poi? Non sarà tutto qui!?- era sempre sarcastico, il Vuoto.
-No, no che non è tutto qui… Poi… poi ci sono anche degli sviluppi imprevisti…- La scatola lampeggiò e si scurì; gli parve anche più leggera e sentiva come una specie di vibrazione. Cominciò a preoccuparsi.
-Ma no! Non mi scadrai ancora una volta negli strani fenomeni!-
-Beh… cioè sai…- stava tremando.
-Tutti questi paroloni e alla fine è solo un’altra stronzata delle tue, che delusione!- La scatola si stava spegnendo- Ma dimmi, com’è che si chiama quell’uomo beffato?-
-Si chiama… si chiama…- Le sue gambe non sembravano più in grado di reggerlo, la scatola si spense del tutto ed era ormai così leggera da sollevarsi da sola dalle sue braccia.
-Non lo sai come si chiama, vero? Non solo mi porti un raccontino dei tuoi, ma è un raccontino ancora tutto da scrivere, forse neanche sai come scriverlo, anzi io credo che tu non abbia poi questa gran voglia di scriverlo, vero? Sarebbe questa la tua arma, povero coglione? Lo sai che contro di me funziona solo la concretezza, il nulla è la mia arma. Hai perso, è giunta finalmente la tua sera.-
Aveva ragione, naturalmente. La scatola si sollevò di un metro, si aprì e si rovesciò: era vuota. Fu attratta dal grande Vuoto e si dissolse in esso. Come aveva potuto credere che quel racconto lo avrebbe salvato? Anzi, come aveva potuto credere che scrivere lo avrebbe salvato? Battere sui tasti era poi così diverso dal giocare con una palla? Macché, allo stesso modo era solo un riempire il tempo. Ma poi perchè farlo? Guardò il Vuoto e gli sembrò morbido. Le sue promesse erano allettanti, e non presupponevano alcuno sforzo da parte sua. Pensare era una fatica insensata, anzi era l’origine di tutte le sofferenze. Non era poi così male abbandonarsi alla volontà del Vuoto, perché non l’aveva fatto prima? Si rilassò e sentì un piacevole formicolio in tutto il corpo, poi si sentì sollevare da terra; chiuse gli occhi e, mentre veniva attirato verso il Vuoto, gli disse, o forse solo lo pensò:
-Posso fidarmi, vero? Sarà come mi hai promesso?-
Il Vuoto gli rispose, con una dolce tenerezza nella voce:
-Certo Davide, sarà come ti dicevo: non sentirai più niente. Niente di niente.-
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…