Prima ancora di mettere il naso là dietro mi ero già fatto un’idea di ciò che vi avrei trovato: c’erano quei versi, che purtroppo non riesco a tradurre in lettere meglio che con un y-y-y-y-yyyyy. Non si capisce, vero? Lo immaginavo, allora sarò esplicito: erano i versi di un delfino, ma concitati e terminanti in un vero e proprio grido, come se avesse capito che c’era un estraneo e avesse voluto attirarne l’attenzione; ogni tanto in mezzo alle grida acute inseriva una specie di trrrr. Un delfino non può far paura, direte, e io sono d’accordo con voi, eppure l’idea che qualcuno ne nascondesse uno in casa mi metteva a disagio, mi sembrava una stranezza inquietante; e questo immaginando un delfino normale.
Insomma sudando e scacciando qualche fastidiosa zanzara sono arrivato fino all’ingresso del posto auto, ho guardato dentro e… e mi sono bloccato. Il mio cervello, senza che al momento me ne accorgessi, ha registrato la parete vuota alla mia destra, i segni degli pneumatici e le macchie di dubbia provenienza sul cemento, e un generico caos alla mia sinistra dietro a una cassa lunga e bianca in terra; i miei occhi invece erano tutti per la vasca. Là dentro c’era l’essere che gridava, e che ora se ne stava di lato a fissarmi con un occhio solo.
Il soffitto lì era alto, tre metri per lo meno, e la vasca (addossata alla parete di fronte a me, alla sinistra dell’apertura) terminava dieci centimetri prima; aveva il fondo e i montanti di sostegno agli angoli in acciaio inox, era larga almeno due metri e lunga più di quattro nella parte visibile: proseguiva all’interno della casa vera e propria ma là era tutto buio e non riuscivo a capire fin dove si spingesse. L’acqua della vasca raggiungeva i due metri e mezzo di altezza e aveva un aspetto malsano: a ogni movimento dell’essere vedevo turbinare una moltitudine di frammenti verdastri, che formavano anche una specie di barriera sul pelo dell’acqua; per non parlare della puzza di stagno putrido che emanava, e che andava ad aggiungersi a un sottofondo salmastro appena sporcato da qualche ricordo di benzina.
L’essere si è rigirato e mi ha fissato con l’altro occhio. L’occhio era grande e aveva una forma tale, una forma “stanca”, da renderlo malinconico, ma soprattutto era blu, quel blu pastello di cui vi ho parlato. I delfini non dovrebbero avere gli occhi neri? È chiaro che ho sùbito pensato alla descrizione che ci aveva fatto Laura, e non solo per via degli occhi: quel delfino aveva troppe cose che non andavano. Di solito il muso (o becco? Comunque avete capito, io lo chiamo muso) dei delfini dà l’impressione di sorridere, invece quello era piegato in modo da sembrare triste, e la parte inferiore terminava con un rigonfiamento simile a un labbro sporgente. Sulla fronte aveva una protuberanza anomala che assomigliava a un naso non ben formato e poi… poi c’era la cosa più sconcertante: quel delfino aveva le sopracciglia, aveva una barba folta e lunga che era come appesa sotto alla mandibola, e aveva una specie di larga criniera che partiva dalla fronte e arrivava fino alla pinna superiore. Quei capelli (o peli) erano rosso acceso. Se, come me, avete fatto due più due comprenderete perché ho cominciato a rabbrividire, con la bocca spalancata e il cuore in accelerazione. Mentre ero lì istupidito a guardarlo, l’essere si è lanciato verso la superficie e con un’abile manovra è riuscito a proiettare qualche schizzo di quello schifo di acqua nella mia direzione, facendomi ritornare in me. Mi sono accorto che una zanzara era attaccata sull’interno del mio avambraccio sinistro, ho fatto per scacciarla ma lei era così presa dal suo godimento che ho finito per schiacciarla, impiastricciandomi il braccio col mio stesso sangue; una cosa abbastanza schifosa, già. Intanto l’essere stava nuotando in tondo con la testa fuori dall’acqua, lanciando grida e trrrr, poi si è immerso di nuovo e si è messo in verticale, appoggiandosi al vetro. Era più o meno grande come me, e la sua pelle era grigio lucente come ci si poteva attendere ma aveva anche dei riflessi rosacei. Osservandolo ho notato un particolare che mi era sfuggito: in mezzo al basso ventre aveva due specie di fessure che formavano come un punto esclamativo, e ai lati di questo gli spuntavano delle dita rosee (con le unghie ben curate), come se due piedi umani vi fossero quasi del tutto immersi; ora le teneva premute contro il vetro e, avvicinandomi, ho visto le linee che formavano le impronte digitali, e le piaghe profonde che facevano pensare che quelle dita non fossero adatte a stare continuamente immerse nell’acqua. L’essere è risalito in superficie e si è messo a gridare come un ossesso, io sono indietreggiato e sono andato a sbattere contro la cassa.
Me ne stavo lì in piedi, a subire le grida di quella cosa, con le mani sulla bocca impastata, gli occhi spalancati, il cuore che sembrava voler battere tutti i record, sudavo e rabbrividivo. Ero di fronte a qualcosa di abominevole, qualcosa che mai avrebbe dovuto esistere, e mi chiedevo: cosa abbiamo fatto? cosa abbiamo fatto? cosa abbiamo fatto? La testa mi si era riempita di quella dichiarazione di colpevolezza. Non so perché ma finisco sempre per sentirmi coinvolto dalle azioni altrui, e così mi sento in colpa per ogni fatto ignobile di cui vengo a conoscenza (ovviamente succede spesso), anche se non so chi lo ha commesso, anche se sono sicuro che mai lo commetterei. Era così umiliante sapere che un essere umano aveva, non so come, portato in vita quell’orrendo ibrido, quella immonda sfida al creato! Le sue grida rimbombavano là dentro. Ho chiuso gli occhi e ho chiesto perdono a Dio. So che oggigiorno parlare di Dio sembra una cosa superata, magari si preferisce la natura con la maiuscola, o forse energia o armonia o altre sciocchezze zen, o forse nemmeno quelle; ma non mi sembrano un granché come alternative.
Ho riaperto gli occhi, in realtà non molto più tranquillo di prima, e ho guardato l’ora: non potevo permettermi più di uno sguardo veloce in giro. Quello stanzone non era altro che un grande sgabuzzino, o un tappeto sotto al quale nascondere la polvere. In una casa ci dev’essere un posto come quello, dove conservare tutto ciò che serve a mantenere l’ordine ma che non si riesce a sistemare in ordine, un posto così è necessario se si vuole ottenere un ottimo risultato d’immagine 1 . L’angolo fra la parete della casa vera e propria, quella attraverso cui penetrava la vasca, e la parete alla mia sinistra era ingombro di attrezzi e oggetti vari ammassati alla rinfusa: un tagliaerba manuale, cesoie, rastrelli, scope, vanghe, pattumiere, secchi, una cassetta degli attrezzi aperta, una scaletta di legno, cavi elettrici, taniche e bidoni di varia misura, sacchi gonfi, numerosi flaconi e bottigliette, un mucchio di stracci e un caotico miscuglio di altri oggetti che non sono riuscito a identificare. Tutto questo mi rassicurava un po’, rendeva Giorgia più umana. Però c’era anche quella cassa.
Fra il caos nell’angolo e me c’era quella bara, di lunghezza standard ma bianca; sebbene lì dentro la sporcizia fosse la benvenuta, la bara era lustra come se fosse l’unica cosa di valore. Sulla parete c’era una mensola su cui erano appoggiati dei vasi con dentro fiori di plastica, dei grossi ceri colorati su dei piattini, e un grande portafoto (versione A4, diciamo) con cornice bianca. Ho guardato la foto, l’avreste fatto anche voi. Quando era stata scattata, l’essere che vi era rappresentato stava dentro alla vasca: l’acqua era verdastra e nell’angolo in basso a sinistra si vedeva un pezzo della coda dell’essere-delfino. L’essere nella foto era un orrendo ibrido fra uomo e polpo: anch’esso aveva gli occhi malinconici dello stesso blu, anch’esso aveva una protuberanza che assomigliava a un naso, anch’esso aveva i capelli, una grande massa rossa fluttuante attaccata alla sua testa gonfia; due dei suoi tentacoli prendevano all’estremità la forma di una mano dalle dita lunghe e sottili.
Può darsi che non comprendiate il mio orrore di fronte a tutto questo, forse l’influenza dei cartoni animate vi renderà addirittura simpatici quegli esseri. Ma se ci foste stati voi là, a guardare quella foto con nelle orecchie le grida acute dell’ibrido-delfino, la pensereste in maniera diversa: era tutto così sbagliato, così orrendo…
Una volta fuori dal recinto le mie gambe hanno perso la loro forza e mi sono dovuto sedere in macchina. Mi ero imbattuto in una sfida a Dio e al buonsenso, provavo orrore e disgusto, stupore e timore che da qualche parte potessero esistere altri ibridi deformi. Ammetto che mi è passato per la testa un pensiero blasfemo e presuntuoso: il buon Dio avrebbe fatto meglio a riporre certi saperi su una mensola posta il più in alto possibile, così che noi bimbi egoisti e irresponsabili non potessimo in alcun modo raggiungerli.
So che al primo impatto può sembrare illogico, eppure io sono convinto che quei due esseri fossero gemelli, i gemelli che Giorgia aveva desiderato al punto di ricorrere a chissà quali mezzi pur di metterli al mondo. Infatti se escludiamo un concepimento “naturale” (e io lo escludo, voglio escluderlo), qualsiasi altra procedura, per quanto sofisticata, non è immune da errori. Spero almeno che non li abbia portati in grembo: ancora combatto per scacciare l’immagine del parto mostruoso che a volte tenta di formarsi nella mia mente. Non posso esserne certo, ma ho l’inquietante sensazione che li tenesse nascosti a tutti, nella zona-sgabuzzino, non solo a causa della loro mostruosità, ma anche (o soprattutto) perché non erano gemelli identici.
E così l’ho raccontato. So già che non mi crederete, ma non posso farci nulla; dovevo farlo, dovevo farlo per l’essere-delfino. Proprio così, avete capito bene, e ora provo a spiegarmi.
Sapete tutti cos’è il retrogusto ma forse non immaginate che esiste anche il retrosuono. Vi è mai capitato di pensare a una parola fino a che la parola perde del tutto il suo significato e diventa per voi solo un insieme di lettere senza senso? Se pronunciaste quella parola a voce alta non riuscireste più a collegarla al suo significato; a un certo punto però l’effetto scomparirà e i suoni che avevano perduto il loro senso lo ritroveranno. Proprio questo è più o meno quello che è accaduto alle grida dell’essere: quelli che prima mi erano sembrati suoni senza senso, un po’ alla volta e dopo svariati minuti, mi hanno rivelato il loro significato, amalgamando nella mia mente il grido insensato assieme alle parole che lo spiegavano (invece i trrrr sono rimasti trrrr). E se i significati delle grida erano “aiuto!”, “aiutami!”, “fammi uscire di qui!”, “ti prego!”, variamente combinati fra loro, ciò che mi ha sconvolto è stato quello che ha detto mentre girava in tondo in superficie, appena dopo aver lanciato schizzi d’acqua verso di me. Si stava rivolgendo a Dio: “grazie Signore, grazie! Grazie di aver esaudito le mie preghiere! Non ho mai dubitato!”. Capite? All’apparenza era più animale che umano, ma quella preghiera dimostrava che era più umano di quanto sembrasse. E io l’ho abbandonato là! Me ne sono andato senza far nulla e per molto tempo ho cercato (inutilmente) di dimenticare tutto, a lungo sono stato addirittura contento che qualcuno avesse ucciso quel povero mostro. Non sono stato capace di accettare la parte di umanità che c’era in lui, e di comportarmi di conseguenza: è un peso che non riuscirò mai a levarmi dalla coscienza, è la più orrenda non-azione della mia vita. Questa testimonianza è per lui, anche se non può certo essere sufficiente a ripagarlo delle sue sofferenze, e per me, anche se non può certo bastare a controbilanciare il mio comportamento. Non so in che modo arriverà concretamente il giudizio, ma sono sicuro che arriverà, e nei miei incubi l’essere-delfino viene sempre chiamato a deporre contro di me.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…