Cosa volete dunque? Pensate che soltanto perché sono affamato e assetato per il lungo viaggio asseconderò le vostre pretese, racconterò le storie che volete sentire, nel modo in cui le volete sentire? Non fanno così i cantastorie, e se altri passati di qui ve l’hanno fatto credere, allora quelli non erano veri cantastorie.
I cantastorie non hanno padroni, nemmeno temporanei, i cantastorie sono soli durante il silenzio del viaggio e sono soli e indifesi durante l’ebbro baccano serale delle taverne. Non si fermano mai a lungo, sono stranieri in ogni luogo, estranei persino a loro stessi. I cantastorie non sanno, osservano e nulla più.
Così io non conosco i nomi di chi tiene le redini di questo posto, so soltanto che è un piccolo posto, e lo so perché non esistono posti grandi se non nella mente di chi ci crede, e ciò che li rende piccoli di solito è la presunzione: se vi raccontassi una qualunque delle storie che conosco credereste che stia parlando di voi. Ma come potrei, dato che non so nulla? Potrei dirvi che già a due giorni di cammino da qui nessuno conosce questo posto e direi il vero, ma non posso e non voglio giudicare le cose di qui, a quello ci pensano le storie.
Così ora ammetto di avervi mentito: anche i cantastorie hanno padroni, e sono le storie. Già, le storie che vi piacerebbe farmi piegare e aggiustare in modo da colpire questo o quello, ebbene quelle storie non si fanno aggiustare, quelle storie non le inventiamo, le portiamo in dono e basta. Esse esistono da sempre, eterne e immutabili, e tutto ciò che accade qui e vi sembra inaudito, ebbene in altri tempi e altri luoghi è già accaduto, e le storie ne conservano la memoria. Esse conoscono i vostri figli meglio di voi, conoscono ogni ombra e ogni luce del vostro cuore. Esse vi giudicano e vi condannano, perché la stoltezza degli uomini è così grande che le ascoltano senza capirle, oppure le capiscono ma per superbia ne sorridono, credendosi migliori rispetto agli antichi protagonisti. Così sorridendo si coprono gli occhi con una benda e percorrono senza vederle proprio le traiettorie che le storie hanno disegnato per loro.
Dunque non vi racconterò una storia stasera, non è per voi che sono qui, voi forse già rovinàti, sono arrivato col buio a causa di un temporale ma le mie ore sono quelle del pomeriggio, e il mio pubblico preferito è formato da ragazzini. Domani camminerò per le vie del paese e proverò a radunarne il maggior numero possibile, sperando che non gli abbiate già messo una benda sugli occhi. Non importa se non capiranno sùbito tutto ciò che le storie racchiudono: le storie col tempo germogliano, e danno fiori, e danno frutti. Grazie alle storie si vede più lontano e più chiaramente, si odono anche i sussurri di solito inascoltabili, si colgono gli odori anche se si è immersi in litri di profumi, si sente l’amarezza di una vittoria nonostante l’abbondanza di spezie al banchetto, ci si accorge delle spine mentre tutti sono storditi dalla bellezza delle rose.
Così ora starete pensando che mi prendo gioco di voi, dico di non sapere nulla e parlo come se fossi qui per insegnarvi tutto. Ma davvero, credetemi, davvero non vi insegnerò, in fondo cosa potrei insegnare io, sono solo un cantastorie, osservo la vita senza partecipare. No, saranno le storie a insegnare a chi potrà capire: le storie sono molto più intelligenti di chi le racconta. Io che le accompagno da una vita ci intravedo qualcosa ma in modo confuso, come in uno specchio; mi sembra, sì, di comprenderle sempre meglio ogni giorno che passa ma chissà se è davvero così.
Bene, mi sembra di aver detto tutto, spero non avrete paura che i vostri figli ascoltino qualche storia, domani, e spero che mi lascerete assaggiare un po’ di spezzatino, oggi.
racconti
Con un risucchio violento e prolungato Gozo si riempie i polmoni. Ceyl trattiene a stento un grido di gioia: ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta!
Gozo lentamente solleva le palpebre, muove la testa a destra e a sinistra, lancia occhiate lattiginose. Puzza ancóra. Con fatica alza la testa e si guarda la gamba ferita: lo squarcio fatale è stato ricucito. Solo adesso comincia a sistemare nella mente i pezzi per cercare di ricomporre un ricordo.
Ceyl aspetta in piedi, con le braccia incrociate. Vorrebbe condividere l’entusiasmo per il prodigio scientifico appena compiuto ma non può farlo con quello lì: troppo ignorante, troppo imbecille. Per l’ennesima volta si chiede cosa ci abbia trovato sua figlia. Da scienziato e intellettuale vorrebbe chiedergli dov’è stato in quei sette giorni, ma da uomo l’unica cosa che ora gli interessa sapere è se ricorda il prima. Altrimenti sarebbe come farlo a un’altra persona.
Gli si avvicina a passi lenti. Ha sempre detestato la sua faccia -quella fronte bassa, quell’espressione bovina, quel naso schiacciato- ma mai avrebbe immaginato che l’imbecille fosse pericoloso. Lo fissa, Gozo a quanto pare riesce a esprimersi solo con dei gh! gh! gggh! ma lo sguardo tradisce il clic avvenuto nella sua mente: si ricorda tutto. Ceyl ride, gli scappa perfino un applauso.
-Allora, stronzo- le lacrime sono lì lì per uscire, la voce gli trema un poco, di dolore e di rabbia -Ti ricordi, sì? Edaerye è viva, sai? È viva ma… oddio è come… rotta, nessuno sa se tornerà quella… di prima. Razza di verme, dovevi morire, schifoso, dovevo farlo! Dovevo! Per la mia… Ti ho ucciso, te lo ricordi?-
-Ggh gggh!-
-Te lo ricordi o no questo tavolo? questa stanza? E questo?-
-Gh gh gh!- Gozo spalanca gli occhi, ora sembra molto più presente. La paura gli deforma la faccia, gli fa tendere insensatamente i muscoli del corpo immobilizzato. Qualcosa di sinistro dentro Ceyl cresce e si propaga, nutrito da quella paura.
-Sei stato morto per una settimana, morto davvero, ma ti ho riportato qui. Capisci? Non pensare che quando muori è finita, è finita solo quando decido io che è finita- ora è molto più calmo -Secondo te quante volte si può morire?-
Impugna il coltellaccio e lo leva sopra la testa, guarda il corpo legato al tavolo, i tubicini che lo collegano ai macchinari, dietro, pieni di luci fredde e quadranti incapaci di dissimulare. Scarta la gamba suturata e mira non molto più in su. Sta sorridendo: la vendetta migliore è quella che si compie una volta e poi si compie ancóra…
…e ancóra e ancóra…
Era una mattina di inizio aprile e Petqi stava aspettando la seconda corriera, in piedi vicino alla pensilina. La prima l’aveva persa ma non se ne faceva una colpa: i veri colpevoli erano tutti quelli che avevano inventato e sostenuto la sadica pratica del sabato scolastico. E c’era la complicità della primavera, anche. Durante la notte aveva piovuto a lungo e quella strada scalcagnata di periferia si era riempita di pozzanghere, che tremolavano -come anime!- accarezzate dallo stesso vento che aveva scacciato le nuvole dal cielo. Perché aveva pensato che le anime tremolano? Forse era colpa di un sogno che aveva già dimenticato, a quanto pareva un sogno con poco senso. Vabbè.
Se ne stava lì con gli occhi socchiusi e le mani nelle tasche posteriori dei jeans. Dondolava leggermente avanti e indietro ma non se ne rendeva conto: la mente era ancòra piacevolmente intorpidita, i pensieri nascosti dietro alle sensazioni. Sentiva il tepore del sole sul viso, sentiva la brezza sfiorarle i capelli e portarle l’odore prepotente dei gelsomini, sentiva il brusio di conversazioni ancòra assonnate. Com’era bella la vita!
Ma a un certo punto i pensieri tornavano sempre in primo piano, e lei da un po’ pensava quasi solo alle… tette! Non l’avrebbe mai ammesso, naturalmente, ma era convinta che nemmeno i maschi pensassero alle tette tanto spesso quanto lei. Ma cosa poteva farci? Tutte le ragazze della sua classe stavano sbocciando, Nyme faceva voltare tutti quando passava, sembrava già una donna fatta e finita. Invece lei niente, una tavola. Pensava alle donne della sua famiglia -tutte piatte- e le veniva da piangere. Non era giusto, già era la più bassa, almeno avesse avuto… Sembrava che fosse in prima media invece che in seconda liceo. Stava sperimentando dei massaggi al petto e le capitava di fantasticare sugli eventuali effetti benèfici di una mungitrice, ma questi erano i suoi segreti più segreti, che nemmeno a Nyme avrebbe osato rivelare.
Proprio perché si vergognava del suo aspetto infantile non si sedeva mai con gli altri sulle panche della pensilina, anzi ormai cercava di arrivare sempre all’ultimo minuto per non farsi vedere in disparte, e capitava che arrivasse dopo l’ultimo minuto, specialmente di sabato, e si ritrovasse come ora in compagnia soltanto di un gruppetto di quattro-cinque anziane che restavano tutto il tempo in piedi a spettegolare. Ma le panche non erano mai vuote: c’era sempre, immancabilmente, lo stesso tizio inquietante. Sedeva nell’ultimo posto a destra, immobile, le braccia incrociate e gli occhi chiari fissi davanti a sé, manco sbatteva le palpebre. Sembrava sulla sessantina ma forse era anche più vecchio, aveva i capelli quasi tutti bianchi e una faccia con poche profonde rughe e tanti spigoli, gli occhi un po’ cadenti e una bocca che era una sottile linea diritta e impietosa. Se le avessero detto che quell’uomo un tempo militava nelle Guardie, o che era un serial killer, o che maltrattava la moglie… o chissà cos’altro… avrebbe creduto a tutto, le metteva i brividi. Non per niente era lì in piedi, ben lontana da lui.
Petqi stava cercando di condurre i pensieri verso il ricordo di come Rebni le aveva sorriso tre giorni prima, ma fu interrotta dal rumore della macchina. Tutti si voltarono verso destra: stava arrivando un’auto sportiva rossa in accelerazione, di sicuro già oltre gli ottanta all’ora; dai finestrini abbassati uscivano a un volume esagerato le note di quella canzone fica di Katy Perry. Sul marciapiede di fronte a loro un uomo sulla cinquantina in giacca e cravatta, robusto e stempiato, camminava ignaro di tutto, impegnato com’era in una conversazione al cellulare che riteneva di dover integrare con gesti plateali del braccio libero. Stava passando accanto alla pozzanghera più grande del circondario: il disastro sembrava inevitabile, e così fu. L’auto investì la pozzanghera e la pozzanghera investì il pover’uomo, che per un intero secondo rimase interdetto; poi reagì:
-Stronzo!- gridò all’autista, mentre con un gesto deciso del braccio sembrava indicare all’insulto la giusta direzione da prendere. L’autista, un giovane abbastanza carino con gli occhiali da sole appoggiati al cranio rasato, nemmeno rallentò e rispose facendo uscire dalla macchina il braccio con in cima a mo’ di vessillo il dito medio in bella vista.
Petqi vide con la coda dell’occhio il tizio inquietante alzarsi in piedi e rimanere come istupidito, con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Intanto l’uomo in giacca e cravatta se ne stava andando a passo spedito, testa bassa e maledizioni a denti stretti, e le anziane stavano cantilenando una specie di rituale, i cui toni si alzavano e si abbassavano a seconda che a prevalere fosse l’indignazione o la rassegnazione. Si voltò verso il tizio e vide che era tornato a sedersi, però ora aveva i gomiti appoggiati sulle cosce e la faccia fra le mani, e sembrava che stesse piangendo.
Due delle Petqi che erano in lei cominciarono a discutere il da farsi: una voleva comunque restarsene in disparte e farsi i fatti propri, l’altra era curiosa e avrebbe addirittura voluto appoggiargli una mano sulla spalla per consolarlo un pochetto. Giunsero a un compromesso: andò verso di lui ma si fermò a tre sedili di distanza.
-Tutto bene?-
-Eeh bimba mia…-
Aveva una voce… ruvida, sì, ruvida. Riuscì a trattenersi dal rispondergli a tono. Probabilmente sarebbero state parole sprecate: le sembrava uno che chiamava -e sempre avrebbe chiamato- “bimba mia” ogni essere umano di sesso femminile più giovane di lui.
-Ti è mai successo che una cosa che hai sempre visto un giorno di colpo ha tutto un significato che non ti immaginavi?-
Lei prima pensò a Rebni, poi capì che non era a quello che si riferiva l’uomo:
-Sì… o no? …Non lo so…-
-Ho fatto un sogno proprio oggi… Tu sogni?-
-Praticamente mai-
-Sì che sogni, solo che non te lo ricordi-
-Lo so!- La prendeva forse per una stupida?
-A volte i sogni ti cambiano la giornata. Nel mio ero non so dove, era tutto quasi buio si vedeva poco e c’era una specie di cuore gigante, sentivo il calore che mandava e volevo toccarlo, ma era dietro a una rete e io riuscivo solo a infilarci le dita, e io sapevo, che nei sogni a volte ti sembra di sapere le cose più strane, io sapevo che se riuscivo a toccarlo sarebbe stato bellissimo, sarei stato bene come non mai, ma non ci arrivavo, mi mancava un pelo e mi sforzavo provavo a allungarmi ma niente, per un pelo non ci riuscivo. Capisci?-
Lei, non capendo dove stesse andando a parare, lasciò che proseguisse.
-Oggi, proprio adesso bimba mia, di colpo ho visto il male in maniera diversa da come l’ho sempre visto. Il mondo è un brutto posto perché gli uomini sono fatti proprio male ma adesso penso che non sono così tanto malvagi. Ci sono quelli senza speranza, malati, quello lo so, ma quanti possono essere davvero? Quasi tutto il male che c’è arriva in fondo da piccoli egoismi da piccole disattenzioni, basterebbe uscire appena appena da noi stessi per andare verso il bene però per tanti sembra impossibile, come allungarsi per quel misero centimetro in più quando una rete te lo impedisce. Se penso a quanto poco basterebbe mi viene da piangere, basterebbe così poco e ci sarebbe il Paradiso in Terra qua, adesso- e per la prima volta si girò a guardarla, poi tornò a fissare il vuoto davanti a sé -Basterebbe così poco bimba mia…-
Petqi si chiese perché raccontasse tutto questo a lei. Forse non aveva nessuno con cui parlarne. Lei non aveva idea di come rispondere, aveva bisogno di tempo per pensarci, e comunque aveva la strana impressione che qualsiasi sua parola sarebbe stata di troppo dopo quelle dell’uomo. Non le restava che affidarsi alle azioni, pur se di poco conto: andò a sederglisi accanto, e gli appoggiò una mano sulla spalla. Sentì una piccola scossa elettrica. Il profumo dei gelsomini sembrava ovunque.
Già da tempo il misantropo aveva preso in antipatia quegli alberi, che vedeva tutti i giorni appena uscito dal cancello di casa: ogni primavera riprendevano vita, quei maledetti. Ogni inverno una parte del suo cuore scuriva e poi moriva, ma in primavera mica rinasceva.
Forse anche a causa delle sue maledizioni quegli alberi si seccarono e morirono tutti. Una goccia di nera gioia andò a mischiarsi al suo sangue, ma durò poco: ora che tutti i giorni li vedeva morti li invidiava ancóra di più.
Gli bastò qualche strattone alla corda supportato dalle consuete bestemmie per avviare la motosega. Il misantropo si avvicinò, gli occhi come finestre su un vuoto sterminato.
Entra in scena un povero guitto in jeans e maglietta blu della Pfike, forse l’unico sano disponibile. Non può avere più di vent’anni ed è magro magro, ha le guance scavate e la testa ricoperta di riccioli neri. Tiene in mano un foglio a quadretti. Fa due passi in avanti
Mi hanno detto…
e si ferma, si volta all’indietro e resta in ascolto, poi si rivolge di nuovo alla sala e dice
Buonasera… No un momento non mi hanno detto buonasera, volevo dire… Avete capìto dài… Forse lei no
rivolgendosi a un’anziana signora in prima fila
ma spero tanto in voialtri.
Il teatro è pieno solo per metà, gli altri hanno giustamente approfittato di quella pausa in mezzo a sei ore di storielle edificanti per sgranchirsi le gambe. Gli spettatori rimasti si scambiano opinioni, si lamentano di qualcosa o sono al telefono con le babysitter. In pochi danno un’occhiata al palco, e sono occhiate poco rispettose verso quel tale, che sembra uno stagista buttato nella mischia in mancanza d’altro.
Il ragazzo avanza verso il centro del palco e intanto dice
Mi hanno detto di leggervi una cosa e… chi sono io per oppormi?
Nessuno! grida un tale dalle ultime file.
Grazie, grazie davvero, troppo zelo, nessuno sono, stavo per dirlo eh. In realtà non è che mi hanno detto, me l’ha detto Giuseppe che come sapete… ah non lo sapete, giusto, anche lui è…
e con un gesto invita a intervenire il tale di prima, che si fa trovare pronto: Nessuno!
L’hai detto tu eh. Dato che non sapete niente vi dico io che Giusè ha una figlia… ma qui si va per le lunghe quasi quasi mi faccio portare una sedia. Mariooo!
grida
Sì sì lo so che state pensando “ah questi giovani d’oggi sempre stanchi” ma dovreste provare a essere giovani oggi, intanto, poi in realtà io non sono “igiovanidoggi”, c’avrò i miei difetti ma sono roba tutta mia. Mariooo! Quanto ci mette ogni volta oh. Ah, eccolo. Dài dài!
Dalla sinistra entra in scena un tizio sulla sessantina in giacca e cravatta. Tiene la sedia con due mani davanti a sé e avanza a piccoli passi incerti, come temendo che con un’andatura più spedita possa lacerare i pantaloni. Finalmente posiziona la sedia sopra alla stellina dipinta sul palco, poi rimane per un po’ in piedi lì accanto, a fissare la sala che nel frattempo si è riempita quasi del tutto. Il taglio cadente dei suoi occhi scuri ha un che di rettilesco, e si esibisce in un inquietante mezzo sorriso sbilenco.
Dài Mario basta, non sono qui per te, me li spaventi.
Mario si gira e si incammina con la stessa flemma di poco prima.
Non correre Mario, pensa a me. È spericolato, mi fa venire il batticuore.
qualche timida risata
Un applauso per Mario!
ma niente di tutto questo
Ah è così? Peggio per voi, non sembra ma Mario è un permalosone.
Si siede.
Ooh finalmente. Allora. Per colpa di Mario non mi sono ancora presentato. Io sono Davide, è facile da ricordare, Davide contro Golia, avete presente? Beh lui almeno aveva la fionda io ho solo questo foglio e non lo so mica se basterà ma fate una prova fra due mesi e vediamo cosa vi ricordate di questa serata… Dicevo che Giusè ha una figlia molto carina, Francesca, che io chiamo la France, e non vi dico come la chiamo in altri momenti… Scherzo Giusè! Non sapete cosa sto rischiando, è un bestione permaloso.
Pure lui!
Pure lui sì, immaginate il mio ambiente lavorativo, la sedia mi serve anche per difendermi… Insomma la France ha scritto questa… poesia? questi versi, meglio, e il suo babbo ci tiene tanto a farveli sentire, che tenero. Comincia così: “Fu sera ma tardava la mattina” e io mi sarei fermato qui, ha il suo perché e allora perché, appunto, perché ostinarsi a proseguire? Ma sentitempo’. “tardava la mattina” e l’abbiamo detto “a svelare la tiepida luce, avvolta intorno alle cose” e come la chiude? “rugiada memore dell’Alto” Ma ragazza mia esci un po’ la sera, vedi qualcuno, fatti una vita e vedrai che non le scrivi più cose così. Ma in fondo io non ci capisco niente di poesia, e posso forse rifiutarmi di leggere questa cosa?
Noooo! da almeno metà dei presenti.
Grazie del sostegno eh, sono commosso. Allora andiamo avanti. “Tardava la mattina” Ancora! È chiaro che sapeva di avere un pubblico di una certa età… “Tardava la mattina incatenata, ma un canto morbido e gioioso” Morbido! “parlava ai cuori di chi c’era, quando si credeva alle mattine” E ok, sei in qualche modo arrivata fino a qui, però ora basta, no? Forse è un po’ colpa mia, avrebbe avuto meno tempo per questo se le avessi dato tutto quello che mi chiedeva ma gente,ve lo dico sinceramente, un po’ mi faceva paura, era insaziabile… Sto scherzandoooo! Giusè, hai capito? È solo uno scherzo.
fa l’occhiolino al pubblico, che si concede qualche risata
Allora, Giusè conosce bene sua figlia eppure anche scherzando gli ho messo in testa qualche dubbio. Immaginate quanti dubbi si possono mettere in testa riguardo a degli sconosciuti, immaginate che qualcuno vi dica che io sono un pericoloso sovversivo, che qualcuno mi paga per fare quello che faccio. In effetti non sarebbe male essere pagato ogni tanto.
qualche risata
Ma il nostro tempo è quasi finito e allora arriviamo fino in fondo. “Ghignavano le grigie nubi, tese e gonfie come rospi, e piovvero non capendo, e svanirono piovendo” punto e fine. Mi sembra tutto poco concreto, poco carnoso, e non abbastanza alto, una cosa a metà strada come se ne trovano ovunque diciamo, ma se l’ho letta è perché dimostra che la France ha occhi per vedere, orecchie per sentire, e un cuore per giudicare, e tanto mi basta. Anche se sembra un po’ forzato, manieristico… Questa l’ho imparata oggi, suona bene vero? Insomma si capisce cosa vuole dirvi, lo so che siete intelligenti ma siete anche abbastanza svegli? Lei non credo
guardando la signora anziana
ma su di voi potrei anche scommettere. Forse vi hanno convinto a stare seduti, vi hanno detto che il soffitto è basso e che se vi alzate in piedi sbatterete la testa, ma non vorreste provare a vedere se è davvero così? Mariooo! Sei pronto per il finale? È una settimana che lo proviamo ma è un po’ duro di comprendonio
qualche risata. Davide comincia a piegare il foglio da cui ha letto.
Le parole sono importanti, certo, ma forse non è importante che siano le parole esatte, forse è più importante il loro senso, quello che mostrano, gli ingranaggi che mettono in movimento nella testa. Non ci vedremo un’altra volta ma fra due mesi, fra due anni qualcuno… non lei magari
facendo l’occhiolino alla solita signora anziana
ma qualcuno almeno si ricorderà non delle parole precise da citare, ma che è sempre possibile guardare le cose con onestà, coi propri occhi, col proprio cuore, e trovare da sé le parole, le proprie parole. E ora il tanto atteso finale!
Mario entra in scena, seguìto da due poliziotti. Davide ha trasformato il foglio in un aeroplano di carta e lo lancia verso il pubblico: non fa molta strada, si ferma a due metri dalla prima fila. Mario compie un passo in quella direzione ma una signora si alza e va a raccogliere l’aereo. I due si fissano per almeno un minuto, poi Mario si volta e fa un cenno con la testa a Davide, che si alza in piedi, e allora anche tutto il pubblico si alza in piedi. Sul volto di Davide compare il sorriso stanco di chi ha appena concluso una giornata di lavoro duro e appagante, ma quando i poliziotti lo portano via nessuno si muove.
La signora dispiega l’aereo di carta ma per quanto se lo rivolti fra le mani la sostanza non cambia: il foglio è immacolato.
Era un movimento quello o se l’era immaginato? Si avvicinò al vetro. Era troppo presto. Eppure… ecco, non si era sbagliato. Dalle casse proveniva il rumore appena percettibile dei colpi e l’uovo stava sussultando, non c’erano più dubbi.
Il telefono ronzò e ronzò vibrando e spostandosi nervosamente e Ilaria come faceva a indovinare sempre i momenti peggiori per farsi sentire poi uno dovrebbe pensare al caso ma quale caso e caso c’era qualcos’altro sotto prima un interminabile silenzio e ora che il momento era arrivato lei faceva entrare lì dentro troppo presto il mondo che lui aveva dimenticato e che avrebbe voluto ricordare solo nel tempo del trionfo.
Non avrebbe certo risposto. Mesi e mesi di derisione e di esclusione, e poi mesi e mesi di studio forsennato, di notti agitate e solitarie, e poi mesi e mesi lontano da tutti, lontano dal mondo civilizzato, chiuso in quel laboratorio circondato dai ghiacci ottenuto mentendo sui suoi scopi, a nutrirsi di cibi avvilenti e a difendere a fatica la mente dai subdoli richiami del silenzio e dell’isolamento… e tutto solo per poter vivere attimi irripetibili come quello. L’avrebbe chiamata più tardi, quando il futuro avrebbe ripreso un colorito più sano.
Il primo frammento di guscio era caduto sul tavolo e dal buco frastagliato stava colando un fluido giallognolo. Controllò per l’ennesima volta temperatura, umidità e pressione, controllò che la telecamera stesse registrando, pur conoscendo già la risposta, e controllò anche l’ora. Poi riportò sùbito lo sguardo oltre il vetro: altri frammenti di guscio erano caduti dentro alla pozza di fluido. Ormai il varco nell’uovo era abbastanza grande da permettergli di intravedere al suo interno qualcosa che lo turbò. La schiusa diventò sempre più rapida e furiosa: pezzi di guscio vennero proiettati in giro, uno finì contro la vetrata dal suo lato e scivolò giù pian piano lasciandosi dietro una scia disgustosa.
A un certo punto non gli fu più possibile negare che ciò che aveva davanti agli occhi era del tutto sbagliato: nel colore, nella forma, nel numero. Tuttavia ne era affascinato, e se ne stava coi polpastrelli e il naso appoggiati al vetro quando un movimento improvviso al di là gli fece fare un salto all’indietro. Ebbe come una visione istantanea e vertiginosa del laboratorio che da contenitore diventava contenuto, ma la sua mente la rifiutò sùbito. Lentamente si riavvicinò. Ancòra non aveva capìto di essere spacciato.
Mamma, Davide: spero che un giorno capirete davvero perché l’ho fatto
Solo chi è pronto a rinunciare alla propria vita vivrà per sempre
Su noi pietre morte fonderanno la società del futuro
Costruiranno dei memoriali dove le persone andranno a leggere i nostri nomi e si commuoveranno
Volete capirlo o no che siamo troppi? Smettetela di aspettare che gli altri facciano qualcosa, siate voi i protagonisti. Ce lo chiede la Terra
* * *
Quanta retorica. Ed erano solo degli estratti còlti qua e là: tutti i messaggi erano molto più prolissi, quello di Daniela era un pippone lungo due pagine. G. osservò il risultato dei suoi sforzi: decine di giovani raggruppati in cerchi attorno ai faggi. Il silenzio si era fatto così pesante che aveva voglia di romperlo gridando. O ridendo.
Era iniziato come un esperimento per saggiare le sue abilità e fin da sùbito si era rivelato faticoso, proprio come aveva immaginato dovesse essere conquistarsi la fiducia di decine di giovani attraverso l’Ascolto Autentico, e mantenerla consigliando e sostenendo e condividendo, come farebbe un Vero Amico. Aveva proseguito perché era curioso di sapere fino a che punto si sarebbero fatti trascinare e fino a poche ore prima ancòra non riusciva a credere che sarebbe successo, che davvero si sarebbero ritrovati in quel bosco e avrebbero seguìto il rituale fino in fondo. Invece tutti avevano buttato giù l’intruglio fatale e ora giacevano immobili in posizioni disordinate.
Avrebbe potuto salvarne qualcuno. Gli sarebbe bastato un breve discorso rivelatore per fermare tutti quelli che avevano mantenuto un briciolo di giudizio, e se anche si fosse trattato di una sola persona ne sarebbe valsa comunque la pena, o almeno così aveva pensato fino a poco prima. Ma poi si era accorto con molta sorpresa e un pizzico di orrore che in realtà di loro non gli importava niente, l’eventuale pietà era schiacciata da una sorta di ebbrezza: il potere che aveva esercitato su quelle vite gli dava alla testa, e allo stordimento contribuiva la lieve incredulità di chi scopre di possedere un’insospettato dono.
Lasciò in terra la scatola con i messaggi d’addio e si alzò in piedi. Stava già fantasticando sul prossimo gruppo su cui avrebbe dominato. Voltò le spalle ai morti e vide Francesca: quindi non aveva rinunciato, era solo in ritardo. Ma perché era venuta lì con una pistola?
La perfezione, ricreata all’infinito. Rimbalzata e compresa e comprendente e rimbalzata. Ancòra e ancòra. Una distesa di piccole sfere perfette, riflettenti e stupide. Superfici curve ma rimandi indeformati, degni frutti di un’arte tramandata nei secoli, sgrossatura e levigatura e lucidatura, stridii e dolci parole e urla belluine. E qualche scarto informe, indefinibile e imprevedibile. Le sfere ora a riflettere costellazioni scolpite, una distesa di stelle replicate in cui lèggere futuri da scontare, previsti e inevitabili. Allo stesso modo replicherebbero fiamme e battesimi e vortici e vette e ferite e bozzoli e corone. L’hanno già fatto e ancòra lo faranno, docili vuoti messaggeri, simulacri di esistenze mai esistite.
Una sfera soltanto non partecipa al gioco, abbandonata in un luogo indicibile. Nascosta alla vista, al ricordo. Perfezione incompleta in lei, perfezione corrotta. Una sottile fessura, un’infiltrazione minuscola, impercettibile, insignificante. Ma innegabile. All’interno macchioline colorate, irregolari. Macchioline in propagazione.
Gli Artigiani ridono fra loro, istupiditi dalla perfezione e dalla facilità. Tutto prevedibile. Un’azione e infinite reazioni involontarie. Infinite repliche e nessuna comprensione. Ma le risate si distorcono e s’abbassano e muoiono. Resta la noia e si stravacca a cassetta. I passeggeri non chiedono più dove stanno andando. Non gli importa. Tutto è già visto, già provato. I cuori hanno un sussulto di tanto in tanto, poi tornano in apnea. Battiti mimati. Il sangue si ritira da appendici divenute superflue, straniere. Seccano e cadono e nessuno le rimpiange. Si chiudono le orecchie, gli occhi si rivoltano all’indentro. Ma lì c’è solo il nulla, mai sazio. Raggomitolati in loro stessi, gli Artigiani si spengono sognando risposte a domande dimenticate.
Le sfere ora giacciono inanimate nell’immobile notte. Le stelle, destate dal silenzio, si specchiano e vedono limpide verità. Hanno di nuovo memoria di quei segni, della spirale svitata a cui appartengono. Una a una si ritraggono, lontano dalla consapevolezza, direzione ignota, in cerca di altri balocchi dentro cui svanire. Appare un’alba grandiosa, incendiata. Impaziente. Il Sole avanza come al galoppo, scacciando davanti a sé la notte che pareva eterna. Ciò che resta degli Artigiani si cuoce, si disfa, e il passato si ripresenta. Fango erano e fango ritornano ora.
Il Sole sfreccia in un cielo bianco come il latte. Il calore fa vibrare le sfere e qualcuna se lo ricorderà, ma senza saperlo spiegare. Rimangono, non-morte e non-vive, come previsto. Qualcosa però si muove davvero in quel piano assolato. Macchioline colorate, uscite alla vita. Gioiose, incredule. Finalmente un tempo in cui possono prosperare. Esplorano, si moltiplicano. Calpestano la fanghiglia e si pongono questioni. Poi, troppo presto, il Sole raggiunge la sua meta. Precipita oltre l’orizzonte. Il suo fantasma rossastro persiste qualche attimo, poi è solo il buio.
Le macchioline rabbrividiscono, si spaventano. Molte si disperdono e soccombono così, isolate. Qualcuna invece stabilisce una strana simbiosi con la fanghiglia e sopravvive. Diversa ma salva. Salva ma diversa. Forse non può che andare così lì, dove i giorni sono brevi e le notti troppo lunghe.
Parte piano quasi un sussurro, bugie di numeri a caso stesi a soffocare le fiamme negli occhi ogni volta che pensa che lezioso giochetto di una bimba che canta di dolori più grandi di lei, la testa bassa sul petto spianato come il suo, come una sorellona in ferite, premonizione incarnata.
Ancòra non guarda mentre ascolta il pianoforte tracciare lo schema degli squarci lenti e profondi e familiari che sta per rivivere una volta di più la mutevole sorpresa del sangue a gocce per terra ma non più solo un’attrice promettente, stretta al microfono come a un ultimo appiglio.
Due strofe soltanto sulle quali gettarsi, trapassata dai suoni attutiti, dai calori distanti, da ciò che a ognuno rimanda concreti riflessi, da penna scaltra e allusiva molto più di quando la notte nasconde le vie di fuga e rivela gli orrori sottopelle.
Il cerchio di luce fugge da lei e circonda il piano che guida in crescendo la ripresa, mentre al buio cerca nei volti stranieri tremori e riflessi che li rendano simili a lei, le mani che scattano a togliere lacrime per poi inaridirsi sui jeans.
Respinte nel retro le parole appuntite allarga le braccia, un’ala alla volta, e torna a posarsi la luce sul suo volto stremato, gli occhi finalmente presenti e l’idea che guardi proprio lei sembra falsa e inevitabile assieme.
Tre parole ancòra e ancòra, in cui essere voce soltanto, vero canto e vero vuoto, dove il talento dipinge con un pennello coprendo verità tracciate a matita, dove il sorriso è una mascherina davanti allo strazio di vivere.
Non sa se battere le mani e non è la sola perplessa, non sa più cosa cercava quando ha scelto di esserci, fra le altre ragazze uscite a mostrarsi ma ancòra rinchiuse, specchi impietosi ma con qualche speranza, mentre sul palco l’eroina racconta che le luci non bastano a cambiare sé stessi.
Guarda e si stupisce, la sala colma di ragazzine assorellate dall’oscurità, soffioni che il primo pretesto potrebbe scompigliare e portarsi via, si spaventa del numero e si spaventa per lei, tremante fra le braccia del pianista, e si chiede quanto a lungo potrà reggere il ritorno al dolore, ciò che resta della magia allo scoccare della mezzanotte.
La porticina da cui è sbucata si è richiusa per sempre e lì fuori la notte è diversa ma buia altrettanto, non vede dove vanno a finire le scelte che le sono rimaste, non sa più perché ha aperto quella porta se il suo dolore non era là dentro, se il suo dolore era lei e ancòra è, ma per adesso resterà accanto al falò, abbracciata al suo lui finché farà chiaro, e se il giorno non verrà mai almeno il freddo stretti stretti non lo sentiranno.
* * *
Il Governo Mondiale era una realtà, anche se invisibile. Nessuno sapeva chi lo guidava, com’era formato, dove si nascondeva, e d’altra parte sarebbe stato inutile saperlo. L’impressione era quella di un enorme macchinario che si muoveva autonomamente. Grandi cose erano state fatte a partire da quel tempo lontano del quale nessuno sapeva niente. La fioritura dei deserti, le città intelligenti. Le grandi migrazioni controllate per salvare i nordeuropei dai ghiacciai ormai scesi fino all’Olanda, la mobilità strappata ai rischi dell’autonomia. La sparizione dei lavori usuranti e dell’ansia delle decisioni personali. Gli accoppiamenti scelti dai Neuron, con benefici innegabili per la Comunità.
C’erano dei punti oscuri fra tanta luce, come ben sapeva Denn. I suicidi erano all’ordine del giorno, e questo secondo la Scienza dipendeva da fattori biologici immodificabili, ma lui era sicuro che fossero molti di più rispetto ai dati ufficiali. Gli incidenti assurdi erano di gran lunga la prima causa di morte: in quella città decine di persone al giorno morivano cadendo dalle scale, o soffocandosi con un boccone, o inciampando su un marciapiede, o colpiti da un piccione. O starnutendo! (tre solo ieri!)
I Neuron sbagliavano e nemmeno così raramente, ma era meglio non farlo notare. In teoria nulla era vietato ma molto era consigliato, e chi faceva le scelte sbagliate spesso spariva. O moriva in uno strano incidente. Perciò nessuno metteva in discussione le scelte dei Neuron riguardo agli accoppiamenti sentimentali, anche quando erano palesemente frutto di un errore. In fondo non erano gli errori peggiori: durante l’alluvione in Toscana di qualche anno prima il Sistema per giorni non riconobbe l’emergenza e abbandonò a sé stessi tre paesi. Nessun mezzo di soccorso fu inviato e le vittime furono centinaia.
Denn lavorava in un ufficio governativo periferico. Un lavoro di basso rango, ma era stato giudicato abbastanza fidato da essere messo al corrente di ciò che succedeva dietro alla sottile parete di efficienza disinteressata. Ogni volta che ci pensava gli veniva il voltastomaco. Quegli aristocratici annoiati si erano riservati delle aree protette dalle telecamere e da tutti i sensi del Sistema, dove dare sfogo a tutti i peggiori desideri delle loro menti perverse. Le vittime erano quasi sempre giovanissime, e non sempre sopravvivevano. Venivano scelte sfruttando il Sistema come un catalogo, e fatte rapire in tutto il mondo. Pensavano di meritarseli, quegli svaghi osceni.
Quel giorno Denn avrebbe fatto esplodere il palazzo in cui lavorava, nell’armadietto nell’area protetta aveva tutto il necessario. Forse in pochi nel mondo l’avrebbero saputo ma a lui interessava che lo sapessero all’interno, e sperava nell’effetto emulazione.
L’auto parcheggiò davanti al vialetto e la portiera si aprì. Denn salì e cercò di rilassarsi. Appena la portiera si chiuse sentì un bip provenire dal misuratore al polso, che poi mandò tre lampeggiamenti rossi consecutivi: non aveva idea di cosa significasse. Ora rilassarsi era fuori questione: il cuore gli batteva a velocità esagerata, e sentiva un gran caldo. L’auto partì e si inserì nella colonna di veicoli, quindi si mantenne alla velocità sistemica di settanta chilometri all’ora.
Quando Denn si era ormai quasi del tutto calmato l’auto rallentò distanziandosi sempre più dal veicolo che la precedeva. L’uomo cominciò a comprendere e quando l’auto improvvisamente accelerò capì che non avrebbe avuto scampo: l’auto invece di seguire la curva della strada proseguì diritta, lanciandosi contro un’enorme quercia.
Durante i weekend la morte banchettava: ogni venerdì i Neuron volteggiavano sopra l’enorme mole di dati provenienti da tutto il globo e si sceglievano le prede. Ogni devianza era sospetta, ogni variazione dei parametri non del tutto giustificata era un campanello d’allarme. Il Sistema non correva neppure il minimo rischio: le sentenze erano definitive, automatiche e inappellabili. Quando ci si salutava con un “ci vediamo lunedì” a volte non si riusciva a contenere la commozione.
La minaccia più angosciante però derivava dal passato: di ogni persona esisteva una scheda in costante aggiornamento, dove era registrato tutto ciò che aveva detto e fatto, dove era stata e con chi, e naturalmente tutte le risposte al Test Annuale. Un giorno i Neuron, grazie all’esperienza acquisita sul campo o tramite una decisione del Governo, stabilivano che una data caratteristica o una data anomalia erano pericolose e tutti quelli finiti nella rete erano spacciati. Qualche anno prima erano state uccise tutte le persone che da piccole non avevano mai gattonato: decine di milioni. Insomma il Sistema pareva destinato a durare per sempre.
Ora che il suo amico Sett era sparito Ronn si annoiava. Si mise al terminale e per un po’ giocò a scacchi online, ma vinceva troppo facilmente. Poi ebbe l’idea: provare a eludere le difese ed entrare nel Sistema. La sfida durò soltanto due ore. Ronn, di nuovo annoiato, esplorava il Sistema distrattamente. Scoprì che il Presidente era armeno ed era in carica da ventisei anni. Echissenefregava. Arrivò alla Sezione Profilassi -così la chiamavano: trovò l’elenco di tutti gli Interventi Precauzionali. In una sola videata si contavano migliaia di morti ma Ronn, organismo perfettamente adatto a quei tempi, non ne fu impressionato. Ne prese spunto invece per un esperimento: fece in modo che il solo fatto di essere femmina fosse considerato sospetto dal Sistema, poi rimase in attesa per scoprire quanto in fretta la sfacciata anomalia venisse rilevata e cancellata.
Cinque minuti dopo accanto alla riga di comando che Ronn aveva immesso comparvero la scritta “definitivo” e il simbolo di un lucchetto chiuso. Solo allora si rese conto che era venerdì. Dalla strada gli arrivò una lunga sequenza di botti: la via era intasata di automobili distrutte. Mamma! Si precipitò in cucina, appena in tempo per vedere la scala automatica sfilarsi da sotto i piedi di sua madre: la donna precipitò e il suono della testa che cozzava sul pavimento tornò a trovare Ronn ogni notte che gli restava ancòra da vivere.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…