Cosa volete dunque? Pensate che soltanto perché sono affamato e assetato per il lungo viaggio asseconderò le vostre pretese, racconterò le storie che volete sentire, nel modo in cui le volete sentire? Non fanno così i cantastorie, e se altri passati di qui ve l’hanno fatto credere, allora quelli non erano veri cantastorie.
I cantastorie non hanno padroni, nemmeno temporanei, i cantastorie sono soli durante il silenzio del viaggio e sono soli e indifesi durante l’ebbro baccano serale delle taverne. Non si fermano mai a lungo, sono stranieri in ogni luogo, estranei persino a loro stessi. I cantastorie non sanno, osservano e nulla più.
Così io non conosco i nomi di chi tiene le redini di questo posto, so soltanto che è un piccolo posto, e lo so perché non esistono posti grandi se non nella mente di chi ci crede, e ciò che li rende piccoli di solito è la presunzione: se vi raccontassi una qualunque delle storie che conosco credereste che stia parlando di voi. Ma come potrei, dato che non so nulla? Potrei dirvi che già a due giorni di cammino da qui nessuno conosce questo posto e direi il vero, ma non posso e non voglio giudicare le cose di qui, a quello ci pensano le storie.
Così ora ammetto di avervi mentito: anche i cantastorie hanno padroni, e sono le storie. Già, le storie che vi piacerebbe farmi piegare e aggiustare in modo da colpire questo o quello, ebbene quelle storie non si fanno aggiustare, quelle storie non le inventiamo, le portiamo in dono e basta. Esse esistono da sempre, eterne e immutabili, e tutto ciò che accade qui e vi sembra inaudito, ebbene in altri tempi e altri luoghi è già accaduto, e le storie ne conservano la memoria. Esse conoscono i vostri figli meglio di voi, conoscono ogni ombra e ogni luce del vostro cuore. Esse vi giudicano e vi condannano, perché la stoltezza degli uomini è così grande che le ascoltano senza capirle, oppure le capiscono ma per superbia ne sorridono, credendosi migliori rispetto agli antichi protagonisti. Così sorridendo si coprono gli occhi con una benda e percorrono senza vederle proprio le traiettorie che le storie hanno disegnato per loro.
Dunque non vi racconterò una storia stasera, non è per voi che sono qui, voi forse già rovinàti, sono arrivato col buio a causa di un temporale ma le mie ore sono quelle del pomeriggio, e il mio pubblico preferito è formato da ragazzini. Domani camminerò per le vie del paese e proverò a radunarne il maggior numero possibile, sperando che non gli abbiate già messo una benda sugli occhi. Non importa se non capiranno sùbito tutto ciò che le storie racchiudono: le storie col tempo germogliano, e danno fiori, e danno frutti. Grazie alle storie si vede più lontano e più chiaramente, si odono anche i sussurri di solito inascoltabili, si colgono gli odori anche se si è immersi in litri di profumi, si sente l’amarezza di una vittoria nonostante l’abbondanza di spezie al banchetto, ci si accorge delle spine mentre tutti sono storditi dalla bellezza delle rose.
Così ora starete pensando che mi prendo gioco di voi, dico di non sapere nulla e parlo come se fossi qui per insegnarvi tutto. Ma davvero, credetemi, davvero non vi insegnerò, in fondo cosa potrei insegnare io, sono solo un cantastorie, osservo la vita senza partecipare. No, saranno le storie a insegnare a chi potrà capire: le storie sono molto più intelligenti di chi le racconta. Io che le accompagno da una vita ci intravedo qualcosa ma in modo confuso, come in uno specchio; mi sembra, sì, di comprenderle sempre meglio ogni giorno che passa ma chissà se è davvero così.
Bene, mi sembra di aver detto tutto, spero non avrete paura che i vostri figli ascoltino qualche storia, domani, e spero che mi lascerete assaggiare un po’ di spezzatino, oggi.
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Con un risucchio violento e prolungato Gozo si riempie i polmoni. Ceyl trattiene a stento un grido di gioia: ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta!
Gozo lentamente solleva le palpebre, muove la testa a destra e a sinistra, lancia occhiate lattiginose. Puzza ancóra. Con fatica alza la testa e si guarda la gamba ferita: lo squarcio fatale è stato ricucito. Solo adesso comincia a sistemare nella mente i pezzi per cercare di ricomporre un ricordo.
Ceyl aspetta in piedi, con le braccia incrociate. Vorrebbe condividere l’entusiasmo per il prodigio scientifico appena compiuto ma non può farlo con quello lì: troppo ignorante, troppo imbecille. Per l’ennesima volta si chiede cosa ci abbia trovato sua figlia. Da scienziato e intellettuale vorrebbe chiedergli dov’è stato in quei sette giorni, ma da uomo l’unica cosa che ora gli interessa sapere è se ricorda il prima. Altrimenti sarebbe come farlo a un’altra persona.
Gli si avvicina a passi lenti. Ha sempre detestato la sua faccia -quella fronte bassa, quell’espressione bovina, quel naso schiacciato- ma mai avrebbe immaginato che l’imbecille fosse pericoloso. Lo fissa, Gozo a quanto pare riesce a esprimersi solo con dei gh! gh! gggh! ma lo sguardo tradisce il clic avvenuto nella sua mente: si ricorda tutto. Ceyl ride, gli scappa perfino un applauso.
-Allora, stronzo- le lacrime sono lì lì per uscire, la voce gli trema un poco, di dolore e di rabbia -Ti ricordi, sì? Edaerye è viva, sai? È viva ma… oddio è come… rotta, nessuno sa se tornerà quella… di prima. Razza di verme, dovevi morire, schifoso, dovevo farlo! Dovevo! Per la mia… Ti ho ucciso, te lo ricordi?-
-Ggh gggh!-
-Te lo ricordi o no questo tavolo? questa stanza? E questo?-
-Gh gh gh!- Gozo spalanca gli occhi, ora sembra molto più presente. La paura gli deforma la faccia, gli fa tendere insensatamente i muscoli del corpo immobilizzato. Qualcosa di sinistro dentro Ceyl cresce e si propaga, nutrito da quella paura.
-Sei stato morto per una settimana, morto davvero, ma ti ho riportato qui. Capisci? Non pensare che quando muori è finita, è finita solo quando decido io che è finita- ora è molto più calmo -Secondo te quante volte si può morire?-
Impugna il coltellaccio e lo leva sopra la testa, guarda il corpo legato al tavolo, i tubicini che lo collegano ai macchinari, dietro, pieni di luci fredde e quadranti incapaci di dissimulare. Scarta la gamba suturata e mira non molto più in su. Sta sorridendo: la vendetta migliore è quella che si compie una volta e poi si compie ancóra…
…e ancóra e ancóra…
Era una mattina di inizio aprile e Petqi stava aspettando la seconda corriera, in piedi vicino alla pensilina. La prima l’aveva persa ma non se ne faceva una colpa: i veri colpevoli erano tutti quelli che avevano inventato e sostenuto la sadica pratica del sabato scolastico. E c’era la complicità della primavera, anche. Durante la notte aveva piovuto a lungo e quella strada scalcagnata di periferia si era riempita di pozzanghere, che tremolavano -come anime!- accarezzate dallo stesso vento che aveva scacciato le nuvole dal cielo. Perché aveva pensato che le anime tremolano? Forse era colpa di un sogno che aveva già dimenticato, a quanto pareva un sogno con poco senso. Vabbè.
Se ne stava lì con gli occhi socchiusi e le mani nelle tasche posteriori dei jeans. Dondolava leggermente avanti e indietro ma non se ne rendeva conto: la mente era ancòra piacevolmente intorpidita, i pensieri nascosti dietro alle sensazioni. Sentiva il tepore del sole sul viso, sentiva la brezza sfiorarle i capelli e portarle l’odore prepotente dei gelsomini, sentiva il brusio di conversazioni ancòra assonnate. Com’era bella la vita!
Ma a un certo punto i pensieri tornavano sempre in primo piano, e lei da un po’ pensava quasi solo alle… tette! Non l’avrebbe mai ammesso, naturalmente, ma era convinta che nemmeno i maschi pensassero alle tette tanto spesso quanto lei. Ma cosa poteva farci? Tutte le ragazze della sua classe stavano sbocciando, Nyme faceva voltare tutti quando passava, sembrava già una donna fatta e finita. Invece lei niente, una tavola. Pensava alle donne della sua famiglia -tutte piatte- e le veniva da piangere. Non era giusto, già era la più bassa, almeno avesse avuto… Sembrava che fosse in prima media invece che in seconda liceo. Stava sperimentando dei massaggi al petto e le capitava di fantasticare sugli eventuali effetti benèfici di una mungitrice, ma questi erano i suoi segreti più segreti, che nemmeno a Nyme avrebbe osato rivelare.
Proprio perché si vergognava del suo aspetto infantile non si sedeva mai con gli altri sulle panche della pensilina, anzi ormai cercava di arrivare sempre all’ultimo minuto per non farsi vedere in disparte, e capitava che arrivasse dopo l’ultimo minuto, specialmente di sabato, e si ritrovasse come ora in compagnia soltanto di un gruppetto di quattro-cinque anziane che restavano tutto il tempo in piedi a spettegolare. Ma le panche non erano mai vuote: c’era sempre, immancabilmente, lo stesso tizio inquietante. Sedeva nell’ultimo posto a destra, immobile, le braccia incrociate e gli occhi chiari fissi davanti a sé, manco sbatteva le palpebre. Sembrava sulla sessantina ma forse era anche più vecchio, aveva i capelli quasi tutti bianchi e una faccia con poche profonde rughe e tanti spigoli, gli occhi un po’ cadenti e una bocca che era una sottile linea diritta e impietosa. Se le avessero detto che quell’uomo un tempo militava nelle Guardie, o che era un serial killer, o che maltrattava la moglie… o chissà cos’altro… avrebbe creduto a tutto, le metteva i brividi. Non per niente era lì in piedi, ben lontana da lui.
Petqi stava cercando di condurre i pensieri verso il ricordo di come Rebni le aveva sorriso tre giorni prima, ma fu interrotta dal rumore della macchina. Tutti si voltarono verso destra: stava arrivando un’auto sportiva rossa in accelerazione, di sicuro già oltre gli ottanta all’ora; dai finestrini abbassati uscivano a un volume esagerato le note di quella canzone fica di Katy Perry. Sul marciapiede di fronte a loro un uomo sulla cinquantina in giacca e cravatta, robusto e stempiato, camminava ignaro di tutto, impegnato com’era in una conversazione al cellulare che riteneva di dover integrare con gesti plateali del braccio libero. Stava passando accanto alla pozzanghera più grande del circondario: il disastro sembrava inevitabile, e così fu. L’auto investì la pozzanghera e la pozzanghera investì il pover’uomo, che per un intero secondo rimase interdetto; poi reagì:
-Stronzo!- gridò all’autista, mentre con un gesto deciso del braccio sembrava indicare all’insulto la giusta direzione da prendere. L’autista, un giovane abbastanza carino con gli occhiali da sole appoggiati al cranio rasato, nemmeno rallentò e rispose facendo uscire dalla macchina il braccio con in cima a mo’ di vessillo il dito medio in bella vista.
Petqi vide con la coda dell’occhio il tizio inquietante alzarsi in piedi e rimanere come istupidito, con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Intanto l’uomo in giacca e cravatta se ne stava andando a passo spedito, testa bassa e maledizioni a denti stretti, e le anziane stavano cantilenando una specie di rituale, i cui toni si alzavano e si abbassavano a seconda che a prevalere fosse l’indignazione o la rassegnazione. Si voltò verso il tizio e vide che era tornato a sedersi, però ora aveva i gomiti appoggiati sulle cosce e la faccia fra le mani, e sembrava che stesse piangendo.
Due delle Petqi che erano in lei cominciarono a discutere il da farsi: una voleva comunque restarsene in disparte e farsi i fatti propri, l’altra era curiosa e avrebbe addirittura voluto appoggiargli una mano sulla spalla per consolarlo un pochetto. Giunsero a un compromesso: andò verso di lui ma si fermò a tre sedili di distanza.
-Tutto bene?-
-Eeh bimba mia…-
Aveva una voce… ruvida, sì, ruvida. Riuscì a trattenersi dal rispondergli a tono. Probabilmente sarebbero state parole sprecate: le sembrava uno che chiamava -e sempre avrebbe chiamato- “bimba mia” ogni essere umano di sesso femminile più giovane di lui.
-Ti è mai successo che una cosa che hai sempre visto un giorno di colpo ha tutto un significato che non ti immaginavi?-
Lei prima pensò a Rebni, poi capì che non era a quello che si riferiva l’uomo:
-Sì… o no? …Non lo so…-
-Ho fatto un sogno proprio oggi… Tu sogni?-
-Praticamente mai-
-Sì che sogni, solo che non te lo ricordi-
-Lo so!- La prendeva forse per una stupida?
-A volte i sogni ti cambiano la giornata. Nel mio ero non so dove, era tutto quasi buio si vedeva poco e c’era una specie di cuore gigante, sentivo il calore che mandava e volevo toccarlo, ma era dietro a una rete e io riuscivo solo a infilarci le dita, e io sapevo, che nei sogni a volte ti sembra di sapere le cose più strane, io sapevo che se riuscivo a toccarlo sarebbe stato bellissimo, sarei stato bene come non mai, ma non ci arrivavo, mi mancava un pelo e mi sforzavo provavo a allungarmi ma niente, per un pelo non ci riuscivo. Capisci?-
Lei, non capendo dove stesse andando a parare, lasciò che proseguisse.
-Oggi, proprio adesso bimba mia, di colpo ho visto il male in maniera diversa da come l’ho sempre visto. Il mondo è un brutto posto perché gli uomini sono fatti proprio male ma adesso penso che non sono così tanto malvagi. Ci sono quelli senza speranza, malati, quello lo so, ma quanti possono essere davvero? Quasi tutto il male che c’è arriva in fondo da piccoli egoismi da piccole disattenzioni, basterebbe uscire appena appena da noi stessi per andare verso il bene però per tanti sembra impossibile, come allungarsi per quel misero centimetro in più quando una rete te lo impedisce. Se penso a quanto poco basterebbe mi viene da piangere, basterebbe così poco e ci sarebbe il Paradiso in Terra qua, adesso- e per la prima volta si girò a guardarla, poi tornò a fissare il vuoto davanti a sé -Basterebbe così poco bimba mia…-
Petqi si chiese perché raccontasse tutto questo a lei. Forse non aveva nessuno con cui parlarne. Lei non aveva idea di come rispondere, aveva bisogno di tempo per pensarci, e comunque aveva la strana impressione che qualsiasi sua parola sarebbe stata di troppo dopo quelle dell’uomo. Non le restava che affidarsi alle azioni, pur se di poco conto: andò a sederglisi accanto, e gli appoggiò una mano sulla spalla. Sentì una piccola scossa elettrica. Il profumo dei gelsomini sembrava ovunque.
Sono troppo ignorante anche solo per accettare o rifiutare le premesse alla tua domanda, figurarsi rispondere... Dico solo che mi…